Elias crudel Canetti

Schermata 2014-04-05 a 19.26.48Elias Canetti lo sapeva e lo scrisse: “Non si dovrebbe conoscere personalmente un poeta. Leggerlo sì, conoscerlo meglio di no”. Detta sottovoce dal poeta la frase suona come un’ammissione. Letta col senno di poi pensando all’amica che più intimamente lo conobbe ha il tono di una beffarda quanto vana ammonizione. Annotata segretamente tra i suoi appunti privati, pubblicata tardivamente tra i suoi aforismi postumi, cade lapidaria come una sentenza. E si vorrebbe pietosamente depositarla come una pietra sui resti di un disastro, sullo scempio di un misfatto compiuto, sulle ceneri di una passione consumata. Invece la lapide viene sollevata solo adesso, anni dopo la morte di Canetti che si spense 89enne nel 1994, per rivelare scheletri sgraditi, fuochi fatui, fantasmi ingannevoli e crudelmente ingannatori. Solo oggi si rivelano i dettagli della lunghissima storia d’amore tra l’autore di “Auto da fé”, “Massa e potere”, “La lingua salvata” e la pittrice Marie-Louise von Motesiczky che gli fu amica, amante, confidente, corrispondente epistolare per una vita. Le lettere che i due si scambiarono per oltre cinquant’anni – dal 1941 in cui presero a frequentarsi in Inghilterra al 1992 in cui, dopo abbandoni, tradimenti e rotture, continuarono a lanciarsi messaggi tra Londra e Zurigo – sono uscite da poco in Germania per la casa editrice Hanser con il titolo “Liebhaber ohne Adresse”. “Amante senza indirizzo”: tale fu infatti per scelta calcolata Canetti, il poeta errante per un destino del suo popolo, emigrante per la sua storia familiare, esule per le sciagure politiche del suo secolo che alla innamorata pen-friend ebbe tutto l’interesse a non fornire un recapito preciso e in mezzo secolo di peregrinazioni spesso si fece spedire missive al fermo posta.

Povera Marie-Louise. Canetti avrebbe dovuto “leggerlo sì”, come lui non mancò più volte di raccomandarle rimproverandole una conoscenza insufficiente delle sue opere, e risparmiarsi di scrivergli, di amarlo per corrispondenza, di patire per un sentimento ambiguamente corrisposto. “Mi chiedo come puoi giustificare la tua incredibile negligenza” le capitò di vedersi rispondere. “Quanto tempo hai avuto? Di quante stupidaggini ti sei occupata? Da un anno e mezzo è uscito il lavoro della mia vita”, le scrisse nel ’61, giusto un anno e mezzo dopo la pubblicazione di “Massa e potere” di cui lei non era stata in grado di parlare adeguatamente con il filosofo Theodor W. Adorno. “E’ triste che tu non abbia idea del suo contenuto. E hai anche il privilegio di essere a contatto con un grande spirito, uno dei più grandi mai vissuti: sto parlando di me, non dimenticartelo”. Meglio per lei sarebbe stato non conoscerlo, evitare il privilegiato contatto, recidere il legame che la donna si ritrovò allacciato addosso per trascinare un gravoso fardello, un peso umiliante, neanche fosse una bestia da soma. Lui la chiamava “Mulo”, appunto, giocando con dubbia ironia sull’abbreviazione del suo nome: Marie-Louise, “mein Muli” “der Maler Mulo”, il pittore somaro. Calcava la mano sulla sua presunta ignoranza, più che altro un complesso di lei, un senso d’inferiorità, una fissazione: il sintomo del disagio e della soggezione in cui la metteva la vicinanza di un genio tanto megalomane. Si compiaceva della sua sottomissione devota. Si premurava di attirarla e di spingerla col metodo collaudato del bastone e la carota, alternando tenerezze e rimproveri, sollecitudine e mancanza di scrupoli, delicate attenzioni e capricciose pretese. Significativo è anche che lui, più vecchio di un anno soltanto e di fatto il suo “protetto”, le desse del “tu” mentre la Motesiczky, che nelle lettere lo chiamava con il soprannome di “Pio”, gli si rivolse fino alla fine con il “Lei”.

Che fosse Muli a tirare il carretto era evidente quanto il bisogno che lui aveva di andarle a rimorchio. Soprattutto agli inizi. Quando si conobbero, in circostanze tuttora imprecisate, erano entrambi già a Londra, fuggiti dopo l’Anschluss dalla Vienna in cui, pur avendo conoscenze comuni, non si erano mai incontrati. La loro relazione iniziò prosaicamente. Il loro primo scambio, attestato dalla prima lettera di questo sterminato carteggio, ha il sapore di un documento contrattuale. Si riferisce a un debito di denaro, alla somma di 600 sterline inglesi ricevute in prestito da Canetti che si impegnava a restituirle alla signorina con il 5% di interessi non appena una sua opera qualsiasi “libro, dramma, film o magari le tre cose insieme, avesse avuto successo materiale”. Non fu propriamente un colpo di fulmine. Il primo confronto tuttavia, con la sua freddezza burocratica, resta significativo. Significava quanto anche in esilio lo status della Motesiczky fosse quello di una signora abbiente, mentre il futuro premio Nobel, autore di un’opera ancora non scritta, solo progettata, versasse in condizioni da indigente. Lei apparteneva a una famiglia ebrea tra le più ricche e influenti dell’aristocrazia viennese. Il titolo nobiliare era per la verità in parte mentito perché il papà di Marie-Louise, Edmund, ufficialmente figlio del principe ungherese Matthias von Motesiczky, era nato dalla relazione di sua madre Rosina con Franz Ritter von Hauer, direttore del museo di storia naturale di Vienna. Crebbe comunque tra fasti principeschi, studiò chimica ma, prima di morire giovane per una briglia intestinale, si dedicò appassionatamente alla musica e alla caccia. Violoncellista virtuoso, duettava con Johannes Brahms; tiratore provetto, usciva con carniere e carabina per le sua battute tra il Wienerwald e i boschi ungheresi. Quanto alla madre di Marie-Louise, Henriette, nipote del filosofo Franz von Brentano e del fisico Robert von Lieben, era figlia di una delle prime pazienti di Sigmund Freud che, con il nome di “Cäcilia M.” entrò nella storia della psicoanalisi. Era stata fidanzata con Hugo von Hofmannsthal e, vedova del Motesiczky, crebbe da sola i suoi due figli tra istitutori privati e scuole di prestigio. Il primogenito, Karl, psicanalista, maggiore di due anni di Marie-Louise, volle restare nell’Austria nazista per gestire i beni di famiglia. Prima di essere deportato ad Auschwitz nel 1942 e ucciso nel ’43 fece in tempo a spedire alla madre e alla sorella, partite nel ’39 per l’Olanda e poi per l’Inghilterra, mobili, stoviglie, biancheria, oggetti d’arte e i dipinti giovanili di Marie Louise ad Amersham, nel Buckingamshire, dove come molti londinesi si erano rifugiate nel ’40 per sfuggire ai bombardamenti tedeschi su Londra. Ad Amersham Marie-Louise visse “è folle dirlo, per via della guerra”, ammise ella stessa, “un’epoca bellissima”. Fu là che accolse Canetti e lo aiutò a cercare per sé e per la moglie un alloggio nella casa del parroco. Gli aprì il suo atelier e gli permise di sistemarvi la sua biblioteca. Gli fornì la chance di una promozione sociale, o almeno è quanto dalla sua amante mondana Canetti prese sempre più esplicitamente a pretendere, lui che, da tutt’altra provenienza, tra mille difficoltà era invece approdato in Gran Bretagna.

Nato in Bulgaria nell’universo della diaspora sefardita, figlio di commercianti ebrei, come Marie-Louise era rimasto precocemente orfano di padre. In casa parlava ladino, bulgaro, turco. Aveva imparato l’inglese in un anno di soggiorno a Manchester dove fu portato dagli affari del papà; solo in età scolare, dopo la morte del padre, la mamma Mathilde gli insegnò il tedesco, la lingua degli strati più colti cui voleva aprirgli l’accesso. Intellettuale randagio, studiò le scienze sempre con un occhio puntato sulla letteratura. Si laureò in chimica e poi da autodidatta seguì le lezioni di Karl Kraus, assieme a Venetiana Taubner-Calderon, detta Veza, che sarebbe diventata sua moglie. A Berlino conobbe Bertold Brecht e George Grosz, tradusse dall’inglese Upton Sinclair, si considerò a tutti gli effetti un letterato e cominciò a pensare a un’opera sua propria. Il primo successo arrivò con il libro d’esordio, “Die Blendung” (“Auto da fé”), uscito nel 1935 e apprezzato da Thomas Mann e Hermann Hesse. Dall’anno successivo Canetti prese a giudicare gli amici o a comprendere persone nella sua cerchia a seconda che avessero o non avessero letto il suo romanzo. Prima di mettere a frutto il suo talento avrebbe però dovuto aspettare ancora dieci anni. I primi soldi arrivarono dopo la traduzione inglese e la seconda edizione tedesca di “Auto da fé”, pubblicate nel ’46 e ’48. Solo negli anni Sessanta riuscì a vivere di scrittura, dopo la morte di Veza, e gli rimase il rimpianto di non aver potuto mai assicurare alla moglie benessere e sicurezza. Con lei invece, dopo il debutto letterario, vide abbattersi su di sé una doppia catastrofe. Nel ’37 morì di tubercolosi l’adorata madre, e nel ’38 i nazisti presero il potere in Austria. I Canetti furono costretti a lasciare Vienna e a riparare a Londra sperando di riuscire a vivere delle traduzioni di Veza. Quanto a Elias, senza soldi, senza lavoro, senza patria né fissa dimora, non gli restò che diventare un “amante senza indirizzo”.

Il sostegno che a un simile “Liebheber” fornì Marie-Louise gli fu più che propizio, non solo per il vitto e alloggio che gli aveva procurato, per il prestito di 600 sterline da rendere con gli interessi, per i libri e i biglietti ferroviari che non esitava a farsi ordinare (e pagare) da lei. La donna, pittrice stimata cui però lui si sentì fin dall’inizio intellettualmente superiore, poté dargli soprattutto l’ascolto, l’ammirazione, il consenso, la lusinga di cui, da artista ambizioso e frustrato, aveva enormemente bisogno. Non fu d’altra parte la prima (né l’ultima) volta che Canetti ricercava nelle compagnie femminili, nella venerazione di un’amante, un rafforzamento del suo ego smisurato. Don Giovanni e misogino, da sempre – come la consorte sapeva e sopportava, consolandosi con la certezza di essere l’unica a meritare, con l’onore coniugale, il suo rispetto – si era circondato di donne. Fu appunto per onorare la memoria di Veza che, il giorno del suo 63° compleanno, cinque anni dopo la morte di lei, giurò solennemente in una pagina del suo diario di rinunciare per sempre al suo stuolo di amichette: “Le ho tutte abbandonate, tutte, tutte: Ursula Kathleen, Veronica, Iris, Priaulx, Natalie, Christine, Jolanda, Dea, Edith, Erika, Ruth, Susi, Jill, Martine, Kim, Kae, Lavinia, Herta, Lucy, Elga, Eileen, Britta, Judy, Pat, Vanessa, Anthea, Elisabeth, Anna, Bernadette, Debora, Barbara, Claudie, Joan. Kiki, Ilse, Elli, Eva, tutte, – perché a Veza Veza Veza Veza Veza sono sopravvissute”. Tra tante comparse, Marie-Louise ebbe un ruolo di primo piano. Sulle prime anche Veza ne era stata sedotta e, prima che la crescente gelosia si tramutasse in antipatia, le aveva manifestato la propria benevolenza. Delicata narratrice, dedicandole il romanzo “The Response” le aveva scritto: “Il soave incanto che irradia da lei mi ha fatto concepire un personaggio che le assomiglia e ha determinato la musica del mio libro”. Canetti, che fu più doppio e ambivalente, non era mai arrivato a rendere alla sua musa e benefattrice un simile omaggio. Debitore del sostegno morale e finanziario assicurato da “Muli” alla sua opera non la menzionò una sola volta nei suoi scritti. In “Party sotto le bombe”, dedicato agli anni inglesi, non la nomina nemmeno. Eppure della gestazione, composizione e fortuna dei suoi testi la teneva sempre a giorno. Le raccontava degli incontri con traduttori ed editori, dei rapporti coi registi e gli interpreti dei suoi drammi. Le spedì dal Marocco certi appunti di viaggio che, rielaborati, finirono nelle “Voci di Marrakech”. Le confidava le sue ambizioni segrete e il suo risentimento di artista misconosciuto. Nel ’64, quasi vent’anni prima di riceverlo davvero, le confessò di sentirsi all’altezza del Nobel: “Da tutto il mondo arrivano applausi e richieste dei miei scritti. Molto bello, molto bello. Un articolo ebraico uscito in Israele dice che mi meriterei il Premio Nobel. Intanto però non me lo danno, e a che mi serve la fama mondiale se vivo come un pezzente?”. Quando nel 1981 finalmente fu incoronato dall’Accademia Reale di Svezia, destinò metà del denaro ricevuto col premio a Marie Louise von Motesiczky, per gratitudine al suo annoso sostegno. Aveva dimenticato di averla accusata per una vita di non conoscere né apprezzare abbastanza la propria opera. Va detto che tenne sempre in altissima considerazione l’attività della Motesiczky pittrice. “Bacio la tavolozza”, concludeva semiserio le sue lettere. Incoraggiò dall’inizio il suo talento: “Tu sei una grande artista e, che tu lo voglia o no, il mondo presto se ne accorgerà”. Accolse con entusiasmo i suoi successi: “Io l’ho sempre saputo”, le scrisse quando fu acclamata dopo l’esposizione dei suoi dipinti al Goethe Institut di Londra, “bisognava solo aspettare”. Poi però si guardò bene dal recarsi al vernissage per l’inaugurazione della mostra, preferiva evitare – disse – di rubarle la scena. Da qualsiasi angolo del mondo le scrivesse – Parigi, Zurigo, Vienna, Firenze, Venezia, Oxford, Marrakech – diceva che sognava di trovarcisi con lei. Ma non partirono neanche una volta assieme per una vacanza. Muli gli aveva aperto la sua dimora, gli aveva offerto uno spazio in cui lavorare, gli aveva messo a disposizione l’atelier di Amersham e, dal ’51, una stanza della gran villa di Compayne Gardens a Hamstead acquistata nel ’48. Lo aspettava “a casa” mentre lui per la maggior parte del suo tempo era in viaggio, e sperava prima o poi di diventare sua moglie, o di avere un figlio da lui. Tollerò la coesistenza di un paio d’altre amanti frequentate durante il soggiorno inglese, due ménage di cui Elias non fece mistero. La scrittrice Friedl Benedikt che, per la livorosa invidia di Canetti, prima che lui riuscisse a sfondare, con lo pseudonimo di Anna Sebastian aveva pubblicato tre romanzi di successo: morì a 37 anni di tubercolosi e lui, recatosi al suo capezzale a Parigi, nelle sue lettere a Muli descrisse il deperimento e l’agonia della morente. Poi fu la volta di Iris Murdoch, una collega all’università di Oxford che a un certo punto abbandonò l’insegnamento e partì per il Canada per dedicarsi interamente alla scrittura di romanzi. Prima di lasciare l’Inghilterra volle farsi fare un ritratto, e Canetti pensò di metterla in contatto con l’amica Marie-Louise chiedendole di realizzare il dipinto con uno sconto. La Murdoch se ne andò nel 1963, l’anno della morte di Veza Canetti in cui la Motesiczky pensò fosse finalmente arrivato il suo turno per stare legittimamente accanto al proprio uomo. Ma la proposta di matrimonio non arrivò, “per riguardo alla memoria di Veza” pensava lei che continuò paziente ad aspettare per anni. Ne trascorsero dieci quando per caso, nell’estate del 1973, dalla conversazione con due giornalisti, seppe che Canetti si era sposato due anni prima a Zurigo con la giovane restauratrice Hera Buschor e ne aveva avuto una bambina, Johanna. Marie-Louise vide il mondo crollarle addosso. Reagì però timidamente con una lettera indirizzata alla nuova signora Canetti in cui, guardandosi bene dal manifestare rabbia o astio, la pregava di mantenere il massimo riserbo sulla loro unione, di non fare uscire notizie né pubblicare fotografie affinché la sua vecchia madre, da trent’anni convinta che la figlia appartenesse ad Elias, non ne fosse sconvolta. A Elias, al “carissimo Pio” avrebbe scritto solo sei mesi dopo, separatamente. Una lettera straziante, spedita per non urtare la suscettibilità di Frau Canetti al fermo posta. Gli diceva quale “tremenda dose di veleno” le era stata iniettata all’improvviso con quella scoperta. Aveva 67 anni ormai e al vecchio amante esprimeva meno recriminazioni che rimpianti. Gli parlava della “favola del grande amore” ormai sfatata, del “grande sogno” della felicità perduta. Si augurava di ritrovare la forza e la concentrazione per dipingere e ammetteva di comprendere la sua esigenza di avere un figlio e una donna giovane accanto a sé in una vecchiaia serena. “Dico tutto questo al poeta Pio, perché egli sappia che anche una Muli sa bene quanto difficile è la sua professione”.

Se vendetta Marie Louise si prese, lo fece adoperando la sua arte. Proprio nel 1973 dipinse in quadro dal titolo “Canetti wägt zwei Frauen” in cui lo scrittore, con gesto mefistofelico, mette due donne sui due piatti di una bilancia per pesarle. E nel 1992, quando lo stesso Canetti le commissionò un ritratto celebrativo, prese a modello una foto che lui detestava e mise bene in evidenza tutti i difetti della sua figura. Lui ne fu scontentissimo. Lo aveva già ritratto tante volte. Sempre a memoria, o sulla base di fotografie, perché lui non sopportava di posare. Anche gli autoritratti di Marie-Louise sono numerosi, qualche volta si raffigurò accanto a lui. Allora la differenza tra i due – nell’aspetto, nel contegno, nell’atteggiamento esistenziale – appariva con grande evidenza. Graziosa, slanciata, sottile, più alta di lui di tutta la testa, lei irradiava un silenzioso magnetismo. Piccolo, macrocefalo, una arruffata testa leonina, lui aveva “gli occhi di un orco”, gli aveva detto un amico scultore: di un “Menschenfresser”, un mangiauomini, o un Barbablù divoratore di signore. “E’ la mia personale catastrofe” aveva scritto di lui Marie Louise in una lettera alla cugina Sophie Brentano. E in un distico annotato nel suo diario personale aveva condensato il dissidio che il suo amore le procurava: “Senza C. il mondo è senza senso; con C è un perpetuo tormento”. Impossibile stare insieme, o separati. Un buon compromesso era scegliere l’intimità e la distanza di una relazione per corrispondenza. Darsi appuntamento per cinquant’anni al fermo posta, come amanti senza indirizzo.

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2 thoughts on “Elias crudel Canetti

  1. Non conoscevo questo episodio della vita di Canetti; sapevo della sua misoginia ma non pensavo a questi eccessi grotteschi. In ogni caso grazie per averlo condiviso.

    • alessandraiadicicco ha detto:

      Grazie dell’attenzione e del commento. La crudeltà a volte è il prezzo della genialità e Canetti non è certo il solo. Un saluto!

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