Archivi categoria: Poesia

La ballata dell’ultimo ospite

Con La ballata dell‘ultimo ospite, opera narrativa più corposa (quasi 200 pagine) rispetto agli ultimi agili libretti pervasi di una insolita serenità, perfino di festosità, scritti e pubblicati da Peter Handke dopo l’assegnazione del premio Nobel, si chiude splendidamente un cerchio. Si riprende il filo di una storia venuta da lontano, da una memoria familiare quasi leggendaria: quella storia formatasi dalle impressioni dell’infanzia e dai racconti della madre che è da sempre per Handke la sorgente più intima e segreta del suo scrivere. Lo ha ricordato – e confessato a cuore aperto – in occasione del discorso ufficiale per il Nobel quattro anni fa. Dagli anni Settanta agli anni Venti del Duemila ha infatti ripreso e variato ripetutamente in numerosi suoi scritti il motivo dello zio che fugge dal collegio, dove gli era stata data l’eccezionale possibilità di studiare, per ritornare nottetempo al cortile di casa. E ripetutamente nel corso della sua opera ha accennato, ma solo per laconiche allusioni, al ritorno a casa, anni dopo, in licenza militare, del fratello maggiore di quello zio: in viaggio, già in prossimità del paese natio, lo zio più vecchio avrebbe appreso che il fratello minore, a sua volta arruolato in guerra, era caduto al fronte, e, tra i familiari, con il peso di quel di quel lutto sul cuore, avrebbe taciuto ai parenti la nefasta notizia.
Di quel silenzio racconta questa ballata (il cui titolo è una strizzata d’occhio a La ballata del caffè triste di Carson McCullers, citata in epigrafe sul frontespizio del volume Suhrkamp), del ritorno a casa, da lontano, da un altro continente, da un viaggio che comporta il cambio di tre aerei più una lunga tratta in pullman, di un ultimo ospite: è un viandante straniero, un viaggiatore solitario, noto a tutti al suo paese ma non riconosciuto da alcuno. Il personaggio, autobiografico perché ispirato allo zio ma anche perché Handke vi si identifica personalmente – come già in passato nella figura del piccolo collegiale fuggiasco – si chiama Gregor, proprio come lo zio fratello della madre, e come il protagonista – insieme al fratello, Hans – del poema drammatico Über die Dörfer che è tra le prove più alte dello scrittore austriaco. Proprio citando il vibrante monologo di Nova, personaggio femminile di quella straordinaria poesia drammatica (»Spiele das Spiel. Sei nicht die Hauptperson…«) Handke aveva iniziato la sua Rede a Stoccolma. A quella poetica, allo spirito che animava capolavori come Attraverso i villaggi, Lento ritorno a casa, Breve lettera del lungo addio, Ancora tempesta attinge la sua sostanza e la sua ispirazione questa Ballata. La prosa è quella dello Handke migliore: pensosa, densa, polifonica, fitta di echi, icastica, immaginifica, caleidoscopica, sofisticatissima. Il testo, composto in età da vegliardo (81 anni oggi, 6 dicembre), suona come la spassionata rivelazione che il poeta ha tenuto in serbo da sempre.

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A perdifiato dentro il castello di Kafka

Kafka fu entusiasta delle prime traduzioni dei suoi lavori: La condanna, Il fochista, i raccontini raccolti nel primo libro pubblicato, Meditazione. Fu l’amica, l’amata Milena Jesenská a eseguirne la versione in lingua ceca, e Kafka si disse commosso della cura con cui la traduttrice aveva soppesato ogni frasetta. Quando i due entrarono più in confidenza, aprendo nel lungo carteggio il proprio cuore l’uno all’altra e lei, celiando sulla firma di lui in calce alle lettere, Franz K. che, nella sua grafia, sembrava tutta una parola, lo chiamava Frank, Kafka ancora ebbe occasione di apprezzarne e approvarne la passione traduttoria e, a proposito della versione di L’infelicità dello scapolo, in cui pare che lei avesse attribuito tratti più marcatamente vivaci al protagonista, commentò: «Naturalmente approvo in tutto la tua traduzione. Solo che sta all’originale come Frank sta a Franz».

Frank Kafka con la sorella Ottla a Zürau (oggi Siřem)

Con il conforto di questa – divertita, sorridente – indulgenza dell’autore si è avviata la presente traduzione di Il castello: il ricordo dell’episodio dava coraggio, valeva a dissipare l’inevitabile, paralizzante soggezione che questo gigante della letteratura e il suo grande romanzo, l’imponente costruzione della sua prosa potevano incutere. Kafka era un gigante davvero, più alto di tutta la testa di coetanei e contemporanei, lungo lungo com’era però, attesta chiunque lo avesse incontrato, si muoveva soave, leggero come un angelo: l’autore di La metamorfosi era un uomo-libellula. E così la sua scrittura: la grafia delicata, a caratteri piccoli, in cui spiccava – tratto deciso, impronta di personalità energica – la linea verticale delle consonanti; e la prosa nitida, schietta, minuziosa, cristallina, atta a penetrare, con incedere sicuro e quell’amore contagioso per «i dettagli miti» di cui parlava il suo maestro di ebraico Friedrich Thieberger, per i particolari tangibilmente concreti, la complessa architettura del mistero. 

Si doveva solo seguire e tenere il suo passo, lasciarsi portare e sorprendere, affidarsi al ritmo seducente della narrazione tenendo la vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho, letta con occhi innamorati e piglio un po’ troppo filosofico trent’anni fa, ben chiusa dentro a un baule in cantina. 

Due sono gli aspetti che il confronto corpo a corpo, vis-à-vis con il testo di Kafka lascia costantemente percepire: l’umorismo guizzante, radioso, irresistibile, ai limiti dell’esilarante comicità, e la musicalità che trascina suadente, sospinta da un possente respiro, l’intera partitura del testo. I due elementi sono reciprocamente legati, se è vero che l’effetto umoristico di una battuta o di un gesto – si veda K. al cospetto di Bürgel in quel capolavoro che è il capitolo XXIII o la burlesca, buffonesca, burattinesca gestualità degli aiutanti dalla loro comparsa sulla scena – è assicurato dal ritmo azzeccato, indovinato o calcolato in cui sono descritti e che la musica grandiosa, prodigiosa del testo, anche quando larga e grave, corrobora, dà forza e dà gioia. 

L’edificio che dominava Zürau-Siřem e che suscitò in Kafka l’immagine del castello

Leggendo – o, un po’ più lentamente, traducendo – non si resta mai senza fiato. Nemmeno quando il fraseggio è amplissimo, nemmeno quando il periodare è lunghissimo, quando la scrittura – annotata di notte, lo sappiamo, dall’autore in preda a una fervida ispirazione – si riversa sulla pagina con l’impeto di una piena e prosegue inarrestabile, spezzata ma non arrestata dai numerosi incisi, fino al lontano punto fermo. Questo è Kafka: i labirintici percorsi mentali, sì, gli ingarbugliati, inestricabili ingranaggi dell’esistenza, certo, ma anche la gioiosità, l’entusiasmo, la Begeisterung, ovvero presenza di spirito e sovrana ironia che gli diedero l’ardire di percorrerli per farne sfavillare l’enigma; che gli fecero sognare – raccontava l’impareggiabile Pietro Citati – di leggere da cima a fondo ad alta voce tutto d’un fiato l’Éducation sentimentale di Flaubert e magari di scrivere tutto d’un fiato, senza smettere né interrompersi, Il disperso o Il castello. La funzione fatica, per dirla alla Jakobson, «io ti dico che…», è talmente forte, il fascino della scrittura talmente potente, lo charme dell’autore talmente intrigante che non si può fare a meno di pendere dalle sue labbra fino alla fine. 

Inevitabile cercare di immaginarsi la sua voce. Stando a quanto ne dissero gli amici di gioventù ricordando colui che fece in tempo solo ad essere giovane – per esempio, per citare solo le testimonianze più toccanti, Urzidil in Di qui passa Kafka, Koch in Quando Kafka mi venne incontro… o più di recente Stach in Questo è Kafka? – la sua parlata era perfettamente coerente con la fisionomia della sua persona e della sua opera. Parlava piano, con voce calda e dolce, alta nel timbro, un’ironia lieve accompagnava sempre le sue parole. Il suo tedesco elegante, lindo, aveva «forse un leggero accento ma era privo di tracce dialettali», così Urzidil che, concittadino di Kafka, parlava lo stesso tedesco-praghese, conservato intatto in quell’isola linguistica fin dal medioevo. Era un tedesco privo di fratture tra lingua quotidiana e lingua letteraria, laddove la prima aveva l’altezza della seconda e la seconda la semplicità della prima, permeato da «l’immensa musicalità naturale» delle melodie popolari boeme. Quella musica dovette improntare le costruzioni sintattiche di Kafka che occasionalmente, ma solo in casa, canticchiava da tenore: schivo com’era, mai più si sarebbe esibito in concerto, anche se per un periodo suonò il secondo violino in un quartetto d’archi. Leggere in pubblico però gli piaceva, leggeva con perfetta chiarezza a velocità vertiginosa, con i crescendo dinamici che ritornano sulla sua pagina. In traduzione quelle sonorità, quel respiro lunghissimo dovevano essere rispettati, conservati, quantomeno evocati. Certo la lingua è un’altra, con possibilità lessicali e sintattiche diverse, e la voce che ripete le parole di Kafka è femminile, proprio come quella di Anita e di Milena, tutte quante devotamente intente a restituire un’eco del dettato di Franz K.

Lucca, marzo 2023

Alessandra Iadicicco

(nota alla nuova traduzione di Das Schloß pubblicata da Il Saggiatore nell’aprile del 2023)

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Peter Handke e il rossetto sulla pietra

«Anzitutto c’era, credo, la parola. Die Dauer, “la durata”, è una bella parola: comincia con un suono morbido, la d, e poi viene una a, e ancora una vocale, e poi… È quasi come se tutta la parola fosse composta da vocali».

Peter Handke aveva incominciato così, con una suggestione musicale, con il ricordo della melodia verbale che gli era risuonata nella mente oltre trent’anni prima, a raccontarci del giorno in cui gli era «arrivata in volo» quella poesia: Gedicht an die Dauer, che nella traduzione italiana – la bellissima versione di Hans Kitzmüller pubblicata da Einaudi – diventa, con perfetta sintonia a quella sonora ispirazione, un «Canto». Eravamo in sei ad ascoltare il racconto di Handke, in casa sua, in teso, emozionato silenzio, perfettamente muti affinché i microfoni registrassero la sua voce tenue, un po’ roca, il suo eloquio tranquillo, lento e sicuro, nitida espressione di pensosità, di concentrazione, di genuina sincerità, e anche perché agli apparecchi non sfuggisse, accompagnamento perfetto della voce del poeta, il frusciare del vento, il mormorio degli alberi nel giardino, il coro dei passeri e dei merli che arrivavano zampettando a sbirciare fin sul davanzale della finestra. Continua a leggere

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Catturando i sogni in punta di matita

«Giro il mio mantra: la matita nel temperino», annota Peter Handke in una riga del suo diario, il suo Journal, come lui stesso chiama il taccuino in cui da anni, da sempre, pratica l’esercizio di un’attenzione giornaliera. Basta una riga, un gesto, che si compie inequivocabilmente come un rito, a dare il senso di quanto segreto e insieme solenne, intimo e insieme universale, silenzioso e tuttavia carico di energia sia il momento in cui lo scrittore si prende cura del suo inseparabile utensile, affila la sua arma – oggetto potente quanto innocente -, prepara il suo strumento di scrittura e di cattura. Sono naturalmente tutte incruente le sfide che affronterà con la matita in pugno, quell’arma così sottile e acuminata non farà vittime, né la sua impresa punterà a riportare vittorie o trofei. Eppure, a noi che lo leggiamo da anni avvertendo sulle sue pagine la tensione viva della parola che aspira a far presa sul mondo, Handke appare come una figura eroica. Tanto più là dove l’intonazione della sua scrittura si fa più assorta, dubitativa, meditativa Continua a leggere

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Scintille di poesia, all’ombra notturna degli alberi

Handke BaumschattenEra proprio così. Peter Handke l’aveva intuito e intonato in un canto trent’anni fa, e il tempo gliel’ha confermato. La durata è il sentimento della vita, più profondo dell’estasi dell’attimo e ugualmente fugace e imprevedibile; ha a che vedere con gli anni, con i decenni, con l’intimità di un luogo domestico e segreto – la stanza di lavoro, il suo giardino – come pure con l’avventura nel mondo; comunque, ovunque, irradia calore, regala conforto, induce a pensare, diffonde la quiete e il silenzio, ristora… Parafrasiamo così ciò che questo immenso autore austriaco cantava nei versi composti nel 1986 per un’urgenza, una necessità di ricorrere alla poesia dettata da quella stessa incomputabile misura di tempo che non avrebbe mai potuto descrivere, o «trasformare in scrittura» attraverso un saggio, un dramma, una storia. Così nacque, o «gli arrivò in volo», come a Handke piace esprimersi, il Gedicht an die Dauer, tradotto ai tempi con una sintonia felice e perfetta come Canto alla durata da Hans Kitzmüller per la piccola casa editrice Braitan di Brazzano in provincia di Gorizia – situata sullo sfondo del paesaggio friulano del Carso così noto e caro a Handke – e riproposto ora prestigiosamente da Einaudi nella stessa versione curata da Kitzmüller (con testo tedesco a fronte 64 pagine € 10). Continua a leggere

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Passeggiando tra le «Tumbas»

Borges_Grave_Cemetery_GenevaVietato leggerlo facendo gli scongiuri. Tumbas mette i brividi, sì. Ma non per la tetraggine di atmosfere cimiteriali o per l’eco lugubre di rintocchi funebri. Immaginatevelo come una lunga cavalcata emozionante, come una danza – non una danza macabra -, come una festa. Un concerto «per ghiaia e suole delle scarpe» – insinua con l’accenno di un sorriso Cees Nooteboom, l’autore della singolare composizione – in cui, accompagnata da un coro che canticchia sussurrando in sottofondo, si leva tutta una teoria di vibranti voci sole. «Getta uno sguardo freddo sulla vita e sulla morte, cavaliere, e prosegui il tuo cammino!», intona William Butler Yeats dall’incisione che volle apposta sulla sua lapide, spronando il destriero e incitando la corsa tra le brume che si levano da una landa irlandese. Ma la nebbia annuncia cieli sereni, ed è presto diradata, non appena Charles Baudelaire viene preso dalla fantasia di scendere al cimitero, «dove regnava un sole così pieno e un immenso brusio di vita riempiva l’aria!» (notò in uno dei suoi racconti). Samuel Beckett, dall’al di là, ripensa commosso a «quella notte in cui il cielo, con tutte le sue luci, mi cadde addosso, lo stesso che avevo tanto guardato quando erravo per la terra lontana… » (scrisse anticipando l’ora fatale). E Robert Louis Stevenson, sulla cima della sua isola da cui abbraccia con lo sguardo l’oceano e la foresta pluviale, pensa con soddisfazione di aver davvero trovato il suo tesoro, e di essere a casa, come è a casa «il marinaio quando è sul mare / e come il cacciatore è a casa sulla collina».  Continua a leggere

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Poesia come se piovesse

P1020035La tentazione di aprire il cancello, di alzare il coperchio, di dare una sbirciata nel giardino di Jan Wagner era troppo forte. La sorpresa che ha destato, l’euforia che ha suscitato illustrandone angoli e dettagli sapientemente pennellati con le parole non potevano lasciare indifferenti. Quarantamila copie vendute, la permanenza di varie settimane nella classifica dei bestseller, la vincita del premio della Fiera del libro di Lipsia, fino ad ora sempre assegnato alla prosa, sono record inauditi per una raccolta di poesie, sia pur composta in lingua tedesca e proposta al pubblico dei lettori forti di Germania che, per formazione, educazione, tradizione, hanno l’orecchio più allenato alla musica e alla lirica. Fatto sta che il fortunato e straveduto volumetto – pubblicato da Hanser Verlag con il titolo di «Regentonnenvariationen», ovvero “Variazioni sul barile di pioggia”, confezionato in copertina rigida ornata da un grazioso motivo di alchechengi – ha sbaragliato la top ten della narrativa tedesca e ha fatto gridare alla rinascita della poesia. O alla sua riscoperta in chiave pop.

Ma com’è che una raccolta di versi così eleganti e preziosi si è conquistata tanta popolarità? Che cosa cela quel barile di pioggia girando attorno al quale Jan Wagner ha intrecciato con tanta malia le sue variazioni?

E’ una botte di legno, un recipiente per l’acqua piovana, chiuso da un coperchio e sistemato al centro di un giardino. Sta “dietro casa”, “sotto un susino”, sorvegliato dall’occhio gigante di un merlo. Sembra “un forno alla rovescia” perché, anziché esalare fumo, può inghiottire le nuvole. Se ne resta immobile, “freddo, sereno”, “come un maestro zen”. Profuma come un lago di bosco, serba un abisso raccolto in sé, e non lo cede. Eppure risale qualcosa attraverso di esso. Continua a leggere

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Peter Handke: «Vivo nel bosco, ascolto gli alberi che sussurrano»

Casa HandkeDa Chaville (Parigi)

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, val la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la timida richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Io gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per capodanno. Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… In effetti come dargli torto? Certe sue posizioni sono state incresciosamente travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia – disse -, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, come un sostenitore del boia Milosevic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Intanto, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria…

Con la vita avventurosa che ha vissuto, con tutte le donne misteriose e bellissime che ha avuto, oggi vive da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del suo giardino – per mostrarmi orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare sue piante – e la porta della sua dimora non potrebbe essere più ospitale. Dunque la traduzione. Cominciamo col parlare di questo.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia? 

Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio.

Perché? 

Non lo so! Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza.  Continua a leggere

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Inge e Paul

Schermata 2014-04-05 a 22.31.38Aspettare lettere è una pena. Come dargli torto? “Inge, auf Briefe warten ist schwer” scriveva Paul Celan alla Bachmann nell’ottobre del 1950. Le scriveva da Parigi. E, aspettando le buste affrancate col timbro di Vienna, da un paio d’anni penava, languidamente. A intervalli più o meno lunghi, scanditi dalle suppliche “scrivi più spesso e regolarmente”, “rispondi presto”, “dimmi presto di te”, “fammi sapere, anche solo con una di quelle parole leggere che saltano fuori quando si è soli e si possono pronunciare solo a distanza”. A intervalli più o meno brevi, a seconda di quanto decidesse di prolungarli colei – la poetessa di “Il tempo dilazionato” – che con la posta si faceva aspettare. Ma Ingeborg aveva un mucchio da fare. Gli studi da finire, le collaborazioni con i giornali da coltivare (la “Wiener Tageszeitung”, “Die Zeit”), l’impegno da redattrice e script-writer con le emittenti radiofoniche (Rot Weiß Rot, Radio Brema, Beyerische Rundfunk). Ed era comunque la prima a conoscere lo stesso languore. “Ho fame di qualcosa che non mi sarà dato”, gli scriveva nel giugno 1949. E se ne stava lì, lontana, digiuna e golosa, a patire la “Dura legge d’amor” – citava in italiano il Petrarca nell’“Invocazione all’Orsa Maggiore” -, obbediente all’amore che si nutre di desiderio più di quanto non nutra di soddisfazione. Senza esagerare però. Infatti “Mio caro, tu dovresti sapere quant’è logorante stare in attesa della posta”, protestava.  Continua a leggere

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Aldo Buzzi, il retrogusto della letteratura

Aldo-BuzziMai più strizzata l’insalata dopo aver letto Aldo Buzzi. Era a portata di mano come la scoperta dell’acqua calda la sua scoperta dell’acqua fredda sulla lattuga (Boston Lettuce precisa nel «diario di un attimo» La lattuga di Boston, Ponte alle Grazie), ma è la mano di un mago quella che presenta il più trascurabile dei contorni come un prodigio di foglioline stillanti sapore, impregnate di (buon) umore, imbevute di succo d’oliva. Il trucco è presto detto (ed è ben scritto, in L’uovo alla Kok): se l’insalata è tolta grondante dal reticino, o scotitoio («come si diceva una volta»), l’acqua porta a galla il gusto dell’olio e lo fa spiccare più puro, intatto, extravergine. Il libro è un Adelphi del 1979, riproposto nel 2002 in «edizione riveduta e ampliata».

Buzzi mi torna in mente ogni volta che, a Milano, vicino alla Statale, ripasso davanti a «la trattoria scavata nel fianco della chiesa rossa di San Nazaro», quasi che, per una liturgia profana, si potesse apparecchiare nell’abside alle spalle dell’altare. «È sempre lì?», mi chiede lui che ci si era fatto servire le sgrammaticate e pur saporite Farfalle alla matricina. Sempre lì, con la sua vecchia insegna Alla Lanterna. Ma in qualsiasi ristorante od osteria non si manca di controllare le regole con cui Buzzi stabilisce l’ospitalità del locale dove sfamarsi: niente luce fredda, niente lampade al neon, niente piani di marmo. Solo legno, sedie imbottite e tavolo grande: anche per un solo commensale, meglio se si è in cinque però «e non uno di più, sennò la compagnia si divide, come un’ameba». Ammessa, per indulgenza eccezionale, la peparola, il simpatico recipiente per il «pepe macinato da tempo», o «pepe bigio»: quello che fa rabbrividire i gourmet con la puzza sotto il naso ma solletica il naso e dà un brivido di commozione a chi ci riconosce il sentore degli angoli di casa, dei vizi addomesticati, della polvere stantia… Continua a leggere

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