Viaggiando in un principio assonnato di primavera attraverso la campagna svedese, che ancora torpida si abbandona pigramente al disgelo, per raggiungere Torgny Lindgren nel suo eremo al limitare delle foreste nell’Östergottland, viene in mente un breve dialogo tra due suoi personaggi. «Ho cercato a lungo un paesaggio che corrisponda al mio stato d’animo», dice lui. «Sì, c’è sempre da vergognarsi di quel che si ha dentro», risponde lei. La battuta, minuscolo assaggio, tradisce lo spirito dello scrittore e accademico di Svezia che da 25 anni siede nella commissione di coloro che eleggono il Nobel per la letteratura: tanto grave e assorto quanto guizzante di acume e di ironia. Si immagina anche che in un paesaggio simile, fatto di boschi di abeti e di acquitrini, dovesse nascondersi L’ultimo bicchiere di Klingsor, l’oggetto sconcertante al centro del suo ultimo romanzo in uscita da Iperborea nella traduzione stupenda di Carmen Giorgetti Cima. Aveva contenuto la più limpida e squisita delle acqueviti, distillata per Pentecoste da un vecchio boscaiolo e, svuotato a ripetizione da costui, «con coraggio e perseveranza», in una notte di ebbrezza, fu dimenticato nella foresta su un ceppo di abete tagliato di sbieco. Lasciato lì per anni, lentamente il bicchiere posato su quella base inclinata rimediò «alla sua vergognosa condizione sbilenca» e «si raddrizzò» – cioè si piegò – puntando verso il cielo. Fu ritrovato da un bisnipote dell’improvvido taglialegna e devoto bevitore il quale, scoprendo la sua inconcepibile forma storta, prese a indagare da pittore di nature morte il mistero della vita della materia e intraprese col pennello in mano «la via per la sobria ebbrezza dell’arte».
Di tutto questo – di ebbrezza e di arte, di natura e devozione, di pittura e romanzi – parleremo con Torgny Lindgren, penso viaggiando, unica passeggera, sul pullman che in tre ore da Stoccolma porta a Linköping. Lui viene a prendermi alla stazione dei bus, una banchina in mezzo al nulla dove il veicolo, con indefettibile puntualità scandinava, si ferma all’ora stabilita. Mi viene incontro camminando sotto una pioggia leggera e gelata. È alto, magrissimo, di una magrezza – scopriremo – malata, e ha una leggerezza spirituale. La pelle del viso, incorniciato da una corta barba da profeta, è bianca e sottile, straordinariamente fresca per i suoi 78 anni, e gli occhi, sotto il cappellino impermeabile, brillano di una luce viva e preziosa. Stina, sua moglie, ci aspetta seduta in macchina. Abbiamo ancora cinquanta minuti di viaggio prima di arrivare alla grande casa parrocchiale – «la chiesa da queste parti ha venduto molte delle sue proprietà ai privati», avverte Lindgren – dove la coppia, inseparabile da sessant’anni, vive da quasi un trentennio. Continua a leggere