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La ballata dell’ultimo ospite

Con La ballata dell‘ultimo ospite, opera narrativa più corposa (quasi 200 pagine) rispetto agli ultimi agili libretti pervasi di una insolita serenità, perfino di festosità, scritti e pubblicati da Peter Handke dopo l’assegnazione del premio Nobel, si chiude splendidamente un cerchio. Si riprende il filo di una storia venuta da lontano, da una memoria familiare quasi leggendaria: quella storia formatasi dalle impressioni dell’infanzia e dai racconti della madre che è da sempre per Handke la sorgente più intima e segreta del suo scrivere. Lo ha ricordato – e confessato a cuore aperto – in occasione del discorso ufficiale per il Nobel quattro anni fa. Dagli anni Settanta agli anni Venti del Duemila ha infatti ripreso e variato ripetutamente in numerosi suoi scritti il motivo dello zio che fugge dal collegio, dove gli era stata data l’eccezionale possibilità di studiare, per ritornare nottetempo al cortile di casa. E ripetutamente nel corso della sua opera ha accennato, ma solo per laconiche allusioni, al ritorno a casa, anni dopo, in licenza militare, del fratello maggiore di quello zio: in viaggio, già in prossimità del paese natio, lo zio più vecchio avrebbe appreso che il fratello minore, a sua volta arruolato in guerra, era caduto al fronte, e, tra i familiari, con il peso di quel di quel lutto sul cuore, avrebbe taciuto ai parenti la nefasta notizia.
Di quel silenzio racconta questa ballata (il cui titolo è una strizzata d’occhio a La ballata del caffè triste di Carson McCullers, citata in epigrafe sul frontespizio del volume Suhrkamp), del ritorno a casa, da lontano, da un altro continente, da un viaggio che comporta il cambio di tre aerei più una lunga tratta in pullman, di un ultimo ospite: è un viandante straniero, un viaggiatore solitario, noto a tutti al suo paese ma non riconosciuto da alcuno. Il personaggio, autobiografico perché ispirato allo zio ma anche perché Handke vi si identifica personalmente – come già in passato nella figura del piccolo collegiale fuggiasco – si chiama Gregor, proprio come lo zio fratello della madre, e come il protagonista – insieme al fratello, Hans – del poema drammatico Über die Dörfer che è tra le prove più alte dello scrittore austriaco. Proprio citando il vibrante monologo di Nova, personaggio femminile di quella straordinaria poesia drammatica (»Spiele das Spiel. Sei nicht die Hauptperson…«) Handke aveva iniziato la sua Rede a Stoccolma. A quella poetica, allo spirito che animava capolavori come Attraverso i villaggi, Lento ritorno a casa, Breve lettera del lungo addio, Ancora tempesta attinge la sua sostanza e la sua ispirazione questa Ballata. La prosa è quella dello Handke migliore: pensosa, densa, polifonica, fitta di echi, icastica, immaginifica, caleidoscopica, sofisticatissima. Il testo, composto in età da vegliardo (81 anni oggi, 6 dicembre), suona come la spassionata rivelazione che il poeta ha tenuto in serbo da sempre.

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EPIFANIE DEL TEMPO 

di Alessandra ladicicco

Der Baum ist so entflammt vom Herbst,
ein so unmäßiger goldner Fleck,

daß er aussieht, als wäre er eine Fackel,
die ein Engel fallen gelassen hat.

Und nun brennt er,
und Herbstwind und Frost
können ihn nicht
zum Erlöschen bringen.

[L’albero è talmente infiammato d’autunno,
una tale smisurata macchia d’oro
che appare come fosse la fiaccola
che un angelo ha lasciato cadere.

E adesso arde, e il vento autunnale
e il gelo non riusciranno a spegnerlo].

Ingeborg Bachmann, 

Jugend in einer österreichischen Stadt

Consentire all’inverno,
ultimo esalare di tutti i sentori,
prima del rapprendersi silente e algido
della neve
prima del sopravvenire del suo
sconosciuto odore bianco.

Luisa Bonesio, Le Selci

Autunno senza alcuno struggimento. Appena quel tanto di malinconia impersonata dall’angelo düreriano che, allherbstlich, è di ritorno ad ogni autunno perché gli si offrano sacrifici senza sfuggirgli.

In una stagione tardoautunnale dell’esistenza, tra il 1959 e il ’66, dunque tra i sessantaquattro e i settantun’anni, Ernst Jünger compose i quattro saggi poetici, definiamoli così, che sono qui raccolti. Nel corpus della sua opera letteraria e teorica, sono scritti che si collocano tra An der Zeit-mauer (1959) e Siebzig verweht (1965-1995). Dunque tra il muro del tempo e l’«età biblica» , il biblische Alter che «Passati i settanta», avvia la stesura degli ultimi diari. Un’età che, come i mesi dell’anno che introducono l’inverno e come il loro angelo – angelo dell’autunno e della meditazione evocato dall’autore all’inizio di Novembre e raffigurato nella veste della Melancholia di Albrecht Dürer anche nelle prime pagine del Sanduhrbuch – invita a meditare sul tempo.

Certo non, come vorrebbero immaginazione collettiva e luoghi comuni, al tempo che passa e che fa invecchiare. Per lo Jünger che il muro del tempo ha già scavalcato o, piuttosto, ha percorso tenendovisi stretto d’accosto, autunno e vecchiezza non hanno la coloritura sentimentale del crepuscolo di un’epoca finale. Alla fine, invece – la fine dell’anno solare, dell’umana esistenza segnata di finitudine, di una fase storica della civiltà occidua e tramontante – Jünger guarda attraverso la pluralità dei suoi simboli. Simboli che, tutti, rinviano al tempo. E, appunto in quanto simboli, inscritti nel tempo, ontologicamente radicati nel tempo, vi rimandano per via di una significazione non decifrabile fino all’ultimo fondo con la linearità della logica.

Anzitutto l’albero. Nel testo del 1962 (che uscì per la prima volta come edizione privata in Bäume di A. Renger Patsch), Jünger lo descrive come un simbolo variamente evocativo. Dell’altezza e della profondità, della madre e del padre, di protezione e possanza. Soprattutto, e in molti sensi diversi, l’albero evoca il tempo. Le età e le generazioni degli uomini: le genealogie e le discendenze che intrecciano le trame dei loro legami nelle sue radici e nella sua chioma. O la brevità della vita che, cantata nel pio memento del Salterio citato dal filosofo (Salmo 88,48 e Salmo 89,5-6), è misurata dall’esiguità del segmento che congiunge, su distanze centenarie, gli anelli annuali del tronco. Misura visibile e non convenzionale, se i cerchi che scandiscono il ciclo solare crescono nella sostanza viva del libro ligneo. E, ancora, è il legno della bara, nave che conduce il defunto nell’ultimo viaggio, «imbarcazione e veicolo per la via cosmica». O è traccia vitale di epoche arcaiche, della preistoria di foreste che, scaldate al sole di estati remotissime, restituiscono quel calore nella forma del carbone che brucia, databile, per un fisico, con esattezza matematica. 

L’albero ha memoria lunga. Ciò lo abilita a intrattenere un rapporto con l’eterno. «L’albero, come la clessidra, è un simbolo dei tempi che si intersecano nell’eterno». Certo non lo raggiunge abbracciando l’ampiezza di cronologie di lunghissimo corso. Né sommando gli istanti innumerevoli di un’età da vegliardo. L’eterno non risulta da una somma. All’emblema dell’eterno non occorrono quantitative e commensurabili grandezze. Bastano le dimensioni del seme. O la sezione del colletto della radice che, come il collo della clessidra, non corrisponde semplicemente alla parte di uno strumento misuratore del tempo bensì è di volta in volta l’istante puntuale e presente del tempo: «il punto che chiamiamo attimo». Lo stesso vale per il seme, l’evangelico granello di senape (che è Gleichnis: parabola e simbolo del Regno dei Cieli in Mt 13,31) o qualsiasi naturale ricettacolo di vita vegetale cui si guardi in una prospettiva non «spermatica» ma «pneumatica». Non solo nell’ottica botanica, dunque, ma anche in un’ottica spirituale. Allora il seme accennerà all’Indispiegato che porta in sé. Senza che per questo vi sia cesura alcuna tra l’indifferenziato di cui la scienza «sa» e l’Indistinto (das Ungesonderte) che lo spirito intuisce e presentisce. 

Per lo Jünger filosofo ed esperto di scienze fin nell’esattezza dei lessici specialistici, le due cose sono la stessa cosa. Per lo Jünger goethiano, il fenomeno che appare in natura (oggetto delle Naturwissenschaften) e il fenomeno che si manifesta nell’ontologia del regno vivente (perscrutato da pensatori e poeti) sono la stessa cosa. Urphänomen, fenomeno originario. Fenomeno cioè che, per Jünger come per Goethe, si libera del limite gnoseologico definitivamente impostogli, dopo due secoli di metafisica, da Kant. Che perde il significato debole e negativo di parvenza e acquista quello pieno e forte di epifania dell’Invisibile: dispiegarsi reale e vitale dell’essere.

Non è un caso se lo Jünger che, con ardite sinossi, o stereoscopie sovrappone alle categorizzazioni scientifiche (senza invalidarle) le forme dell’ontologia, o conferisce all’ordine concettuale della natura la terza dimensione della profondità in cui si spinge la logica del simbolo, guardi alle tassonomie dei botanici con occhi da fisionomo. I diversi generi e specie di albero gli appaiono come le forme di caratteri fisiognomici distinti: gli appaiono perciò «come essenze e non come specie».

Jünger si richiama alla fisiognomica come all’antica disciplina che nei lineamenti di un volto o nel disegno della trama dei rami vede i tratti in cui – letteralmente – prende corpo (e non si maschera in esso), si pone in essere (e non decade nella materia da un qualche metafisico aldilà) quel che esiste. E della fisiognomica si serve per guardare il fenomeno (in questo caso l’albero) come all’espressione di un destino singolare, individuale, personale. «L’albero è una grandezza in cui la natura acquista individualità, meglio: personalità» E, come un singolo, è dal singolo riconosciuto: dall’individuo che, nel tipo del proprio albero ideale (al alto fusto piuttosto che di chioma frondosa, di fitta ramificazione piuttosto che di profilo sottile e slanciato) riconosce una ideale forma di totem. È questa una sorta di agnizione che, al di là delle ordinate tassonomie per cui certamente un faggio si distingue da una quercia e un tasso da un cipresso, arriva a individuare quel che «istintivamente sappiamo che cos’è».

Sapienza istintiva. Sapienza che raggiunge uno strato più profondo delle classificazioni botaniche, ma anche delle preferenze artistiche che dettano i canoni di stili diversi. Persino più profondo delle differenze sessuali: se è vero che le piante monoiche portano fiori sia maschili sia femminili e che le lingue storiche attribuiscono all’albero generi diversi, come il latino, che ne declina al femminile anche i nomi con desinenza maschile. 

Che ne è oggi delle profondità di questo sapere dell’albero, del suo spessore simbolico? Viviamo, scrive Jünger, «in un’epoca maldisposta verso l’albero». Epoca «di consumo sfrenato» e di «sperpero inaudito» che non si fa scrupolo di aggredire boschi e foreste per alimentare una produzione rapinosa e vorace.

Jünger però non pone nei termini – attualissimi, a rischio di banalizzazioni giornalistiche – dell’ecologia la questione di un’economia che sortisce come esito ultimo la perdita del simbolico e la violazione dell’«Inviolabile» nell’albero. «L’economia – scrive – non è che un elemento concomitante». Più significativo dell’andamento della congiuntura è il manifestarsi di due profonde tendenze epocali: la tendenza al livellamento e all’accelerazione

Anche in questo senso l’albero porta il segno del tempo. E presta il significato della propria forma – figura viva e morente – a una lettura sintomatica dell’epoca.

***

Come l’albero, la pietra è, nel tempo, un segno dei tempi. Un vivente simbolo della vita. L’occasione per una lettura simbolica e sintomatica, divinatoria e prognostica (attenta cioè alla percezione cosmogonica dell’universo quanto alla previsione dello storico destino del mondo) del regno minerale si offrì a Jünger durante una gita nella valle dell’Eder. Un’escursione compiuta in gioventù e raccontata in questo Steine, che nel 1966 fu pubblicato per la prima volta in edizione privata come Gestein di A. Renger-Patzsch.

Laggiù, presso il corso del fiume, si era appena avviata la costruzione di una diga che decretava la fine di un piccolo villaggio, destinato a venire presto sommerso dalle acque. Una scelta economica dettata dall’esigenza di immagazzinare energia a discapito della fisionomia che il precedente (e già condannato) insediamento aveva conferito al paesaggio. Una discussione intavolata nella Stube locale con la gente del posto sulla formazione delle pietre fornisce allo scrittore lo stimolo per pensare alle pietre in relazione con il tempo. Con il tempo atmosferico, se agenti come l’erosione del vento, le spaccature provocate dal gelo o dalla calura, contribuiscono a mutare l’aspetto di rocce o scogliere. Anche con il tempo geologico però: quello delle glaciazioni e delle maree, di frane, terremoti o della crescita dirompente delle radici. È la storia della Terra, la Erdgeschichte che in Al muro del tempo si contrappone – concettualmente, gnoseologicamente – alla storia dell’uomo e del mondo (la Weltgeschichte, la storia universale). Ma che – ontologicamente, nella prospettiva di una filosofia della storia – la assorbe e comprende in sé.

In tal senso l’uomo, figlio della terra e costruttore di dighe, erige sul corpo della madre le proprie titaniche architetture che, per quanto invadenti e trasfiguranti se viste da vicino, nella prospettiva più ampia e lontana (la prospettiva «astronomica» di Der Arbeiter) fanno lo stesso effetto degli strati di diatomee, di minerali o di coralli depositati sulla pelle del pianeta.

Anche in questo caso lo sguardo di Jünger sulle distruttive costruzioni dell’epoca tardo moderna non è semplicemente ecologico. E alla pietra, al limite inerte materiale da costruzione, guarda (poeticamente) come a una creatura viva. Il poeta di riferimento è ancora Goethe, il Goethe delle Gedichte zur Farbenlehre: «Natur hat weder Kern noch Schale, / Alles ist sie mit einem Male». La natura non ha guscio né cuore, non ha nocciolo né buccia: il vivente, il Bios, abbraccia l’uno e l’altro. «L’essere o, come lo chiamava Goethe, “l’interiorità della natura”, resta sempre ugualmente lontano; è dunque sempre ugualmente vicino. Il suo miracolo; si nasconde nel tempo». Lo si osserva con evidenza sorprendente (miracolosa: das Wunder) nei depositi degli strati minerali formati dal nocciolo e dal guscio, dall’ossatura e dal carapace, dalle conchiglie, le corazze, gli scheletri e le zanne: da quel che di più duro negli organismi viventi assomiglia alla pietra e tende a farsi minerale. Viceversa, «nella stessa pietra fluttua una forza infinita». Jünger ne osserva le pulsazioni e l’evoluzione nelle metamorfosi delle rocce calcaree, nelle formazioni stalattitiche, nelle saline, nei vulcani. Oltre che nella fucina tellurica e mortale sepolta sul fondo delle miniere di Falun della fiaba di E. T. A. Hoffmann. E ancora l’arte, la letteratura, a soccorrere lo Jünger esploratore del regno minerale e intento a volgere in chiave cosmogonica anche i giudizi degli scienziati (del Wegmann a disagio di fronte alla distinzione rigorosa tra pietra magmatica e pietra non magmatica, per esempio).

La letteratura, oppure l’arte figurativa di un pittore come Hokusai che, nel ritrarre i sacri rilievi del Giappone o il mare, sovrappone il profilo del monte e la curva dell’onda, fino a confondere la neve delle cime con la spuma sulla cresta. Questo, scrive Jünger, «significa guardare attraverso il tempo».

Occhiata trasversale cui la pietra rivela la forza viva e fluttuante che porta in sé. Sia essa sarcofago a creature fossili o ricettacolo dell’acqua della vita.

***

Ai due componimenti dedicati ai mesi dell’anno Novembre e Dicembre, scritti rispettivamente nel 1959 e nel 1964, rinunciamo ad aggiungere parole di presentazione o di commento. Si presentano da sé, nella loro compiuta bellezza. Nell’altezza poetica che Jünger vi raggiunge a dispetto della loro intima privatezza. Evidentemente il filosofo scrive i due testi a Wilflingen, nella foresteria prospiciente il castello degli Stauffenberg (dove viveva dal 1950): si riconosce il paesaggio della campagna dell’Alta Svevia, ma persino le piante del suo giardino e l’amatissima Stauffenberglinde, il tiglio degli Stauffenberg che vedeva dalle finestre del suo studio. 

Scrittura privata, ma certo non intimistica, né ripiegata su di sé, per colui che dei propri diari aveva fatto un rituale di ascesi quotidiana oltre che un capolavoro. Neppure malinconica o consolatoria, però, la scrittura che accompagna i giorni precedenti l’inverno (rigidissimo da quelle parti).

Jünger vi parla di natura e di tempo. Del tempo che in natura si volge nel ciclo delle stagioni e, in quella più buia dell’anno, lascia intravedere le spie del ritorno della luce e del calore: le gemme del sambuco, i germogli dei tulipani, la fioritura del fico. Anche del tempo della vita, però, in cui «la morte allunga le sue antenne»: prefigurata dalla notte dell’inverno. Presentita come «l’altra luce» nella rivoluzione degli astri, e «da sempre presagita e venerata dalle genti».

[Nota alla mia traduzione

di L’albero. Quattro prose,

di Ernst Jünger,

Herrenhaus 2003]

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A perdifiato dentro il castello di Kafka

Kafka fu entusiasta delle prime traduzioni dei suoi lavori: La condanna, Il fochista, i raccontini raccolti nel primo libro pubblicato, Meditazione. Fu l’amica, l’amata Milena Jesenská a eseguirne la versione in lingua ceca, e Kafka si disse commosso della cura con cui la traduttrice aveva soppesato ogni frasetta. Quando i due entrarono più in confidenza, aprendo nel lungo carteggio il proprio cuore l’uno all’altra e lei, celiando sulla firma di lui in calce alle lettere, Franz K. che, nella sua grafia, sembrava tutta una parola, lo chiamava Frank, Kafka ancora ebbe occasione di apprezzarne e approvarne la passione traduttoria e, a proposito della versione di L’infelicità dello scapolo, in cui pare che lei avesse attribuito tratti più marcatamente vivaci al protagonista, commentò: «Naturalmente approvo in tutto la tua traduzione. Solo che sta all’originale come Frank sta a Franz».

Frank Kafka con la sorella Ottla a Zürau (oggi Siřem)

Con il conforto di questa – divertita, sorridente – indulgenza dell’autore si è avviata la presente traduzione di Il castello: il ricordo dell’episodio dava coraggio, valeva a dissipare l’inevitabile, paralizzante soggezione che questo gigante della letteratura e il suo grande romanzo, l’imponente costruzione della sua prosa potevano incutere. Kafka era un gigante davvero, più alto di tutta la testa di coetanei e contemporanei, lungo lungo com’era però, attesta chiunque lo avesse incontrato, si muoveva soave, leggero come un angelo: l’autore di La metamorfosi era un uomo-libellula. E così la sua scrittura: la grafia delicata, a caratteri piccoli, in cui spiccava – tratto deciso, impronta di personalità energica – la linea verticale delle consonanti; e la prosa nitida, schietta, minuziosa, cristallina, atta a penetrare, con incedere sicuro e quell’amore contagioso per «i dettagli miti» di cui parlava il suo maestro di ebraico Friedrich Thieberger, per i particolari tangibilmente concreti, la complessa architettura del mistero. 

Si doveva solo seguire e tenere il suo passo, lasciarsi portare e sorprendere, affidarsi al ritmo seducente della narrazione tenendo la vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho, letta con occhi innamorati e piglio un po’ troppo filosofico trent’anni fa, ben chiusa dentro a un baule in cantina. 

Due sono gli aspetti che il confronto corpo a corpo, vis-à-vis con il testo di Kafka lascia costantemente percepire: l’umorismo guizzante, radioso, irresistibile, ai limiti dell’esilarante comicità, e la musicalità che trascina suadente, sospinta da un possente respiro, l’intera partitura del testo. I due elementi sono reciprocamente legati, se è vero che l’effetto umoristico di una battuta o di un gesto – si veda K. al cospetto di Bürgel in quel capolavoro che è il capitolo XXIII o la burlesca, buffonesca, burattinesca gestualità degli aiutanti dalla loro comparsa sulla scena – è assicurato dal ritmo azzeccato, indovinato o calcolato in cui sono descritti e che la musica grandiosa, prodigiosa del testo, anche quando larga e grave, corrobora, dà forza e dà gioia. 

L’edificio che dominava Zürau-Siřem e che suscitò in Kafka l’immagine del castello

Leggendo – o, un po’ più lentamente, traducendo – non si resta mai senza fiato. Nemmeno quando il fraseggio è amplissimo, nemmeno quando il periodare è lunghissimo, quando la scrittura – annotata di notte, lo sappiamo, dall’autore in preda a una fervida ispirazione – si riversa sulla pagina con l’impeto di una piena e prosegue inarrestabile, spezzata ma non arrestata dai numerosi incisi, fino al lontano punto fermo. Questo è Kafka: i labirintici percorsi mentali, sì, gli ingarbugliati, inestricabili ingranaggi dell’esistenza, certo, ma anche la gioiosità, l’entusiasmo, la Begeisterung, ovvero presenza di spirito e sovrana ironia che gli diedero l’ardire di percorrerli per farne sfavillare l’enigma; che gli fecero sognare – raccontava l’impareggiabile Pietro Citati – di leggere da cima a fondo ad alta voce tutto d’un fiato l’Éducation sentimentale di Flaubert e magari di scrivere tutto d’un fiato, senza smettere né interrompersi, Il disperso o Il castello. La funzione fatica, per dirla alla Jakobson, «io ti dico che…», è talmente forte, il fascino della scrittura talmente potente, lo charme dell’autore talmente intrigante che non si può fare a meno di pendere dalle sue labbra fino alla fine. 

Inevitabile cercare di immaginarsi la sua voce. Stando a quanto ne dissero gli amici di gioventù ricordando colui che fece in tempo solo ad essere giovane – per esempio, per citare solo le testimonianze più toccanti, Urzidil in Di qui passa Kafka, Koch in Quando Kafka mi venne incontro… o più di recente Stach in Questo è Kafka? – la sua parlata era perfettamente coerente con la fisionomia della sua persona e della sua opera. Parlava piano, con voce calda e dolce, alta nel timbro, un’ironia lieve accompagnava sempre le sue parole. Il suo tedesco elegante, lindo, aveva «forse un leggero accento ma era privo di tracce dialettali», così Urzidil che, concittadino di Kafka, parlava lo stesso tedesco-praghese, conservato intatto in quell’isola linguistica fin dal medioevo. Era un tedesco privo di fratture tra lingua quotidiana e lingua letteraria, laddove la prima aveva l’altezza della seconda e la seconda la semplicità della prima, permeato da «l’immensa musicalità naturale» delle melodie popolari boeme. Quella musica dovette improntare le costruzioni sintattiche di Kafka che occasionalmente, ma solo in casa, canticchiava da tenore: schivo com’era, mai più si sarebbe esibito in concerto, anche se per un periodo suonò il secondo violino in un quartetto d’archi. Leggere in pubblico però gli piaceva, leggeva con perfetta chiarezza a velocità vertiginosa, con i crescendo dinamici che ritornano sulla sua pagina. In traduzione quelle sonorità, quel respiro lunghissimo dovevano essere rispettati, conservati, quantomeno evocati. Certo la lingua è un’altra, con possibilità lessicali e sintattiche diverse, e la voce che ripete le parole di Kafka è femminile, proprio come quella di Anita e di Milena, tutte quante devotamente intente a restituire un’eco del dettato di Franz K.

Lucca, marzo 2023

Alessandra Iadicicco

(nota alla nuova traduzione di Das Schloß pubblicata da Il Saggiatore nell’aprile del 2023)

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Se l’orso ha paura di un angelo Sami

Orso lapponeCucinare un orso e divorarlo. Il piatto forte apparecchiato dallo svedese Mikael Niemi vince al primo assaggio le remore dei più schifiltosi: impossibile resistere al sapore di una preda così feroce e selvaggia catturata da una trama narrativa potente. Risultato: le 500 pagine di questa storia arcaica e spietata, magica e inquietante si fanno fuori in due-tre giorni di lettura famelica senza lasciare una briciola. E i palati più fini si leccheranno i baffi, perché la scrittura di Niemi – narratore e poeta, sognatore e storyteller – sa sfiorare con la nonchalance del vero artista le vette del lirismo più delicato risalendo di slancio e con vigore gli abissi dei misteri più oscuri. Definire il suo romanzo un giallo storico è riduttivo: si racconta, sì, di una serie di delitti, consumati nel paesino lappone di Pajala – dove Niemi è nato e vive – verso metà Ottocento. Ma la soluzione del giallo sta alla fine del testo «come l’oliva nel Martini», per citare quanto Raymond Chandler, un maestro della prosa letteraria, diceva dei suoi stessi noir: ci sta, ma se ne può anche fare a meno. C’è qualcos’altro che inchioda il lettore alla pagina: la sapienza smagata del reverendo Laestadius, il pastore luterano rivoluzionario fautore nella Svezia di allora della corrente mistica del Risveglio, che si mette sulle tracce dell’assassino; l’innocenza animale, l’umiltà totalmente disarmata del piccolo trovatello Sami cresciuto del pastore, devoto al suo maestro, adorante, sciaguratamente innamorato; una religiosità insieme opprimente ed esaltante; l’ombra della fiera, l’orso; il presagio del demoniaco; l’avvilente evidenza dell’umana crudeltà… Sono solo alcuni degli ingredienti. Ma lasciamo che sia l’autore stesso a rivelarci i segreti della sua succulenta ricetta. Continua a leggere

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Peter Handke e il rossetto sulla pietra

«Anzitutto c’era, credo, la parola. Die Dauer, “la durata”, è una bella parola: comincia con un suono morbido, la d, e poi viene una a, e ancora una vocale, e poi… È quasi come se tutta la parola fosse composta da vocali».

Peter Handke aveva incominciato così, con una suggestione musicale, con il ricordo della melodia verbale che gli era risuonata nella mente oltre trent’anni prima, a raccontarci del giorno in cui gli era «arrivata in volo» quella poesia: Gedicht an die Dauer, che nella traduzione italiana – la bellissima versione di Hans Kitzmüller pubblicata da Einaudi – diventa, con perfetta sintonia a quella sonora ispirazione, un «Canto». Eravamo in sei ad ascoltare il racconto di Handke, in casa sua, in teso, emozionato silenzio, perfettamente muti affinché i microfoni registrassero la sua voce tenue, un po’ roca, il suo eloquio tranquillo, lento e sicuro, nitida espressione di pensosità, di concentrazione, di genuina sincerità, e anche perché agli apparecchi non sfuggisse, accompagnamento perfetto della voce del poeta, il frusciare del vento, il mormorio degli alberi nel giardino, il coro dei passeri e dei merli che arrivavano zampettando a sbirciare fin sul davanzale della finestra. Continua a leggere

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Catturando i sogni in punta di matita

«Giro il mio mantra: la matita nel temperino», annota Peter Handke in una riga del suo diario, il suo Journal, come lui stesso chiama il taccuino in cui da anni, da sempre, pratica l’esercizio di un’attenzione giornaliera. Basta una riga, un gesto, che si compie inequivocabilmente come un rito, a dare il senso di quanto segreto e insieme solenne, intimo e insieme universale, silenzioso e tuttavia carico di energia sia il momento in cui lo scrittore si prende cura del suo inseparabile utensile, affila la sua arma – oggetto potente quanto innocente -, prepara il suo strumento di scrittura e di cattura. Sono naturalmente tutte incruente le sfide che affronterà con la matita in pugno, quell’arma così sottile e acuminata non farà vittime, né la sua impresa punterà a riportare vittorie o trofei. Eppure, a noi che lo leggiamo da anni avvertendo sulle sue pagine la tensione viva della parola che aspira a far presa sul mondo, Handke appare come una figura eroica. Tanto più là dove l’intonazione della sua scrittura si fa più assorta, dubitativa, meditativa Continua a leggere

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Fuga in Sicilia, il finale dopo il fnale

Un romanzo esistenziale, quasi una parabola della condizione umana, che scorre via travolgente come un racconto di avventura, innervato dalla tensione di un thriller e attraversato a tratti, per raggi obliqui, dall’ammaliante luminosità di un sogno a occhi aperti: si legge cui muscoli tesi, i pugni stretti dal piacere e la fronte corrugata a perscrutare quel che via via si fa incontro il libro con cui il tedesco Bodo Kirchhoff ha vinto il «Deutscher Buchpreis» 2016, tra i premi letterari più importanti in Germania, assegnato al miglior romanzo dell’anno. L’incontro, appunto, si intitola nella versione italiana appena pubblicata da Neri Pozza, e la parola restituisce, dell’intraducibile termine tedesco prescelto per il titolo originale, Widerfahrnis, il senso di destinale casualità, di fatalità, di calamità che grava su tutte le pagine, dalla prima all’ultima, di questa sconcertante narrazione. È una storia a due, e i due che si incontrano e, trascinati dalla sorte, accettano di partire insieme, viaggiando attraverso il buio e l’ignoto, diretti verso la luce e il tepore, sono un uomo e una donna. Continua a leggere

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Vatti a fidare della bellezza… Meglio leggere Solstad

Conquista come la tentazione di una travolgente avventura amorosa la lettura del Romanzo 11, libro 18 di quel genio norvegese che è Dag Solstad (si pronuncia Sulsta’, ce lo disse lui stesso due anni fa). È infatti descrivendo con un realismo da cinema in 3D le dinamiche potenti e sottili della fascinazione che incomincia questo racconto di un gioco pericoloso con la vita. Sulle prime sarà impossibile resistere: alla tentazione, alla fascinazione, alla voglia di stare al gioco. Poi però ad avere la meglio sarà la malia del racconto. Un flusso di narrazione ininterrotta che, da pagina 1 a pagina 180 – senza cesure di capitoli, rari sono perfino i capoversi – ti solleva, ti trascina, ti trasporta nei meandri segreti dell’esistenza che, lambiti in fondo nella quotidianità di chiunque, al tocco della scrittura di Solstad si rivelano nella loro misteriosa crudeltà. Così, alla fine, a lasciarti a riva assorto e fremente, con un vago sorriso smagato sulle labbra, non sarà il prevedibile riflusso dell’ondata di passione, il desiderio sfumato, l’amore deluso, bensì la corroborante intelligenza di questo scrittore che scorre luminosa tra le pagine come una splendente marea piena di gorghi e insidie.

Dapprima si è inclini a seguire col batticuore, con un senso di resa e di intima complicità il protagonista del romanzo, Bjørn Hansen quando, sedotto dal sogno di un po’ di felicità rubata – la più desiderabile: quella proibita e passeggera -, lascia la moglie e il figlioletto di due anni per correre dietro, fin nella più remota provincia norvegese, alla seducente Turid Lammers, una sofisticata bellezza nordica che sprigiona appeal, energia vitale, e uno studiatissimo charme parigino sottolineato dalla gestualità delle mani acquisita «come un accessorio estetico» quand’era in Francia per i suoi studi. Di fatto il colpo di testa che lo porta a rompere con tutto ciò che era – un rispettato professionista, un onesto padre di famiglia, un autorevole impiegato ministeriale a Oslo -, lo conduce in un paesino dimenticato da Dio dove accetta di svolgere, perfino con trasporto, il ruolo di esattore comunale accanto a colei per la quale aveva provato un’attrazione che non ricorda né capisce più.

Con una ferocia spietata, quasi sadica, Solstad disegna l’inesorabile linea di caduta dell’avvenenza femminile che sfiorisce. Continua a leggere

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Handke diventa Wenders

Aranjuez(c)AlfamaAlla lunga, dopo un giro alquanto avventuroso, il biglietto che gli avevo spedito quest’inverno da Cadice era arrivato. Era un acquerello formato cartolina che rappresentava la Puerta de Tierra: acquistato dal libraio antiquario di Plaza de Mina, la stessa in cui nacque Manuel de Falla, imbustato, affrancato con un francobollo “illegale” – di quelli non riconosciuti dall’ufficiale correos che evidentemente laggiù rifilano ai turisti ignari nei chioschi dei souvenir – e spedito all’indirizzo di Peter Handke a Chaville. La lettera, naturalmente, era stata rifiutata dalla posta spagnola, dirottata verso altri lidi e consegnata mesi dopo, con il suddetto francobollo fasullo oscurato da un adesivo e il timbro postale di Malta. Conteneva quella che per me, all’inizio di febbraio, era ancora una notizia fresca, da comunicare con l’entusiasmo del punto esclamativo, e l’annuncio di un imminente cimento, una nuova sfida, un’altra avventura da traduttrice alle prese con i suoi scritti: «Tradurrò I bei giorni di Aranjuez!, gli scrivevo rimandandogli dalla Spagna quel suo titolo che evocava una località spagnola. La risposta, stavolta, non era arrivata con la posta, non c’era tempo. Così Peter Handke, cocciuto analfabeta informatico, refrattario all’uso del computer, scrittore con taccuino e matita, estimatore delle lettere all’antica, si era appoggiato alla posta elettronica della moglie, che vive a Parigi. Era già metà maggio quando arrivò l’e-mail di Sophie Semin, l’attrice francese con cui Handke è sposato dal 1990, la madre di Léocadie, figlia minore dello scrittore, la donna che è riuscita ad accettare la smanie di solitudine di un autore da sempre diviso tra la ricerca dell’amore e la sua inclinazione da eremita. In perfetto tedesco mi scriveva: «Peter Handke ha pensato a te. Si tratta dei sottotitoli del film Les Beaux Jours d’Aranjuez che Wim Wenders ha tratto dalla pièce di Peter e che sarà presentato a settembre in concorso al festival di Venezia. Peter ha scritto il testo in francese e proprio in questa lingua – la mia! – recitiamo nel film. Il produttore, Paulo Branco, vuole una buona traduzione per i sottotitoli. Peter sa che stai lavorando sulla versione tedesca del libro. Ci auguriamo che con il francese non ci siano problemi…» Non ce ne sono stati.

Che rete sontuosa e intricata di lingue e nazionalità per ricucire un legame – quello tra Peter Handke e Wim Wenders – stretto da quasi cinquant’anni. Un autore austriaco, un regista tedesco, un produttore portoghese, un’attrice francese, una città spagnola, un’edizione e una mostra del cinema italiane. Dunque il dramma – che a rigore è «un dialogo estivo» – Die schönen Tage von Aranjuez, uscito da Suhrkamp nel 2012 e, pochi mesi dopo, dall’editore parigino Le bruit du temps, già presentato alla stampa internazionale come The Beautiful Days of Aranjuez, tradotto in italiano per Quodlibet come I bei giorni di Aranjuez (data di uscita: 1° settembre) sarà in concorso a Venezia come Les Beaux Jours d’Aranjuez, tratto dalla prima versione eccezionalmente scritta in francese «Per Sophie» – avverte la dedica del libro – la quale ne possiede privatamente il manoscritto originale, recitato dalla stessa Sophie nel ruolo di protagonista, e realizzato con la regia di Wim Wenders. Continua a leggere

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Scintille di poesia, all’ombra notturna degli alberi

Handke BaumschattenEra proprio così. Peter Handke l’aveva intuito e intonato in un canto trent’anni fa, e il tempo gliel’ha confermato. La durata è il sentimento della vita, più profondo dell’estasi dell’attimo e ugualmente fugace e imprevedibile; ha a che vedere con gli anni, con i decenni, con l’intimità di un luogo domestico e segreto – la stanza di lavoro, il suo giardino – come pure con l’avventura nel mondo; comunque, ovunque, irradia calore, regala conforto, induce a pensare, diffonde la quiete e il silenzio, ristora… Parafrasiamo così ciò che questo immenso autore austriaco cantava nei versi composti nel 1986 per un’urgenza, una necessità di ricorrere alla poesia dettata da quella stessa incomputabile misura di tempo che non avrebbe mai potuto descrivere, o «trasformare in scrittura» attraverso un saggio, un dramma, una storia. Così nacque, o «gli arrivò in volo», come a Handke piace esprimersi, il Gedicht an die Dauer, tradotto ai tempi con una sintonia felice e perfetta come Canto alla durata da Hans Kitzmüller per la piccola casa editrice Braitan di Brazzano in provincia di Gorizia – situata sullo sfondo del paesaggio friulano del Carso così noto e caro a Handke – e riproposto ora prestigiosamente da Einaudi nella stessa versione curata da Kitzmüller (con testo tedesco a fronte 64 pagine € 10). Continua a leggere

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