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EPIFANIE DEL TEMPO 

di Alessandra ladicicco

Der Baum ist so entflammt vom Herbst,
ein so unmäßiger goldner Fleck,

daß er aussieht, als wäre er eine Fackel,
die ein Engel fallen gelassen hat.

Und nun brennt er,
und Herbstwind und Frost
können ihn nicht
zum Erlöschen bringen.

[L’albero è talmente infiammato d’autunno,
una tale smisurata macchia d’oro
che appare come fosse la fiaccola
che un angelo ha lasciato cadere.

E adesso arde, e il vento autunnale
e il gelo non riusciranno a spegnerlo].

Ingeborg Bachmann, 

Jugend in einer österreichischen Stadt

Consentire all’inverno,
ultimo esalare di tutti i sentori,
prima del rapprendersi silente e algido
della neve
prima del sopravvenire del suo
sconosciuto odore bianco.

Luisa Bonesio, Le Selci

Autunno senza alcuno struggimento. Appena quel tanto di malinconia impersonata dall’angelo düreriano che, allherbstlich, è di ritorno ad ogni autunno perché gli si offrano sacrifici senza sfuggirgli.

In una stagione tardoautunnale dell’esistenza, tra il 1959 e il ’66, dunque tra i sessantaquattro e i settantun’anni, Ernst Jünger compose i quattro saggi poetici, definiamoli così, che sono qui raccolti. Nel corpus della sua opera letteraria e teorica, sono scritti che si collocano tra An der Zeit-mauer (1959) e Siebzig verweht (1965-1995). Dunque tra il muro del tempo e l’«età biblica» , il biblische Alter che «Passati i settanta», avvia la stesura degli ultimi diari. Un’età che, come i mesi dell’anno che introducono l’inverno e come il loro angelo – angelo dell’autunno e della meditazione evocato dall’autore all’inizio di Novembre e raffigurato nella veste della Melancholia di Albrecht Dürer anche nelle prime pagine del Sanduhrbuch – invita a meditare sul tempo.

Certo non, come vorrebbero immaginazione collettiva e luoghi comuni, al tempo che passa e che fa invecchiare. Per lo Jünger che il muro del tempo ha già scavalcato o, piuttosto, ha percorso tenendovisi stretto d’accosto, autunno e vecchiezza non hanno la coloritura sentimentale del crepuscolo di un’epoca finale. Alla fine, invece – la fine dell’anno solare, dell’umana esistenza segnata di finitudine, di una fase storica della civiltà occidua e tramontante – Jünger guarda attraverso la pluralità dei suoi simboli. Simboli che, tutti, rinviano al tempo. E, appunto in quanto simboli, inscritti nel tempo, ontologicamente radicati nel tempo, vi rimandano per via di una significazione non decifrabile fino all’ultimo fondo con la linearità della logica.

Anzitutto l’albero. Nel testo del 1962 (che uscì per la prima volta come edizione privata in Bäume di A. Renger Patsch), Jünger lo descrive come un simbolo variamente evocativo. Dell’altezza e della profondità, della madre e del padre, di protezione e possanza. Soprattutto, e in molti sensi diversi, l’albero evoca il tempo. Le età e le generazioni degli uomini: le genealogie e le discendenze che intrecciano le trame dei loro legami nelle sue radici e nella sua chioma. O la brevità della vita che, cantata nel pio memento del Salterio citato dal filosofo (Salmo 88,48 e Salmo 89,5-6), è misurata dall’esiguità del segmento che congiunge, su distanze centenarie, gli anelli annuali del tronco. Misura visibile e non convenzionale, se i cerchi che scandiscono il ciclo solare crescono nella sostanza viva del libro ligneo. E, ancora, è il legno della bara, nave che conduce il defunto nell’ultimo viaggio, «imbarcazione e veicolo per la via cosmica». O è traccia vitale di epoche arcaiche, della preistoria di foreste che, scaldate al sole di estati remotissime, restituiscono quel calore nella forma del carbone che brucia, databile, per un fisico, con esattezza matematica. 

L’albero ha memoria lunga. Ciò lo abilita a intrattenere un rapporto con l’eterno. «L’albero, come la clessidra, è un simbolo dei tempi che si intersecano nell’eterno». Certo non lo raggiunge abbracciando l’ampiezza di cronologie di lunghissimo corso. Né sommando gli istanti innumerevoli di un’età da vegliardo. L’eterno non risulta da una somma. All’emblema dell’eterno non occorrono quantitative e commensurabili grandezze. Bastano le dimensioni del seme. O la sezione del colletto della radice che, come il collo della clessidra, non corrisponde semplicemente alla parte di uno strumento misuratore del tempo bensì è di volta in volta l’istante puntuale e presente del tempo: «il punto che chiamiamo attimo». Lo stesso vale per il seme, l’evangelico granello di senape (che è Gleichnis: parabola e simbolo del Regno dei Cieli in Mt 13,31) o qualsiasi naturale ricettacolo di vita vegetale cui si guardi in una prospettiva non «spermatica» ma «pneumatica». Non solo nell’ottica botanica, dunque, ma anche in un’ottica spirituale. Allora il seme accennerà all’Indispiegato che porta in sé. Senza che per questo vi sia cesura alcuna tra l’indifferenziato di cui la scienza «sa» e l’Indistinto (das Ungesonderte) che lo spirito intuisce e presentisce. 

Per lo Jünger filosofo ed esperto di scienze fin nell’esattezza dei lessici specialistici, le due cose sono la stessa cosa. Per lo Jünger goethiano, il fenomeno che appare in natura (oggetto delle Naturwissenschaften) e il fenomeno che si manifesta nell’ontologia del regno vivente (perscrutato da pensatori e poeti) sono la stessa cosa. Urphänomen, fenomeno originario. Fenomeno cioè che, per Jünger come per Goethe, si libera del limite gnoseologico definitivamente impostogli, dopo due secoli di metafisica, da Kant. Che perde il significato debole e negativo di parvenza e acquista quello pieno e forte di epifania dell’Invisibile: dispiegarsi reale e vitale dell’essere.

Non è un caso se lo Jünger che, con ardite sinossi, o stereoscopie sovrappone alle categorizzazioni scientifiche (senza invalidarle) le forme dell’ontologia, o conferisce all’ordine concettuale della natura la terza dimensione della profondità in cui si spinge la logica del simbolo, guardi alle tassonomie dei botanici con occhi da fisionomo. I diversi generi e specie di albero gli appaiono come le forme di caratteri fisiognomici distinti: gli appaiono perciò «come essenze e non come specie».

Jünger si richiama alla fisiognomica come all’antica disciplina che nei lineamenti di un volto o nel disegno della trama dei rami vede i tratti in cui – letteralmente – prende corpo (e non si maschera in esso), si pone in essere (e non decade nella materia da un qualche metafisico aldilà) quel che esiste. E della fisiognomica si serve per guardare il fenomeno (in questo caso l’albero) come all’espressione di un destino singolare, individuale, personale. «L’albero è una grandezza in cui la natura acquista individualità, meglio: personalità» E, come un singolo, è dal singolo riconosciuto: dall’individuo che, nel tipo del proprio albero ideale (al alto fusto piuttosto che di chioma frondosa, di fitta ramificazione piuttosto che di profilo sottile e slanciato) riconosce una ideale forma di totem. È questa una sorta di agnizione che, al di là delle ordinate tassonomie per cui certamente un faggio si distingue da una quercia e un tasso da un cipresso, arriva a individuare quel che «istintivamente sappiamo che cos’è».

Sapienza istintiva. Sapienza che raggiunge uno strato più profondo delle classificazioni botaniche, ma anche delle preferenze artistiche che dettano i canoni di stili diversi. Persino più profondo delle differenze sessuali: se è vero che le piante monoiche portano fiori sia maschili sia femminili e che le lingue storiche attribuiscono all’albero generi diversi, come il latino, che ne declina al femminile anche i nomi con desinenza maschile. 

Che ne è oggi delle profondità di questo sapere dell’albero, del suo spessore simbolico? Viviamo, scrive Jünger, «in un’epoca maldisposta verso l’albero». Epoca «di consumo sfrenato» e di «sperpero inaudito» che non si fa scrupolo di aggredire boschi e foreste per alimentare una produzione rapinosa e vorace.

Jünger però non pone nei termini – attualissimi, a rischio di banalizzazioni giornalistiche – dell’ecologia la questione di un’economia che sortisce come esito ultimo la perdita del simbolico e la violazione dell’«Inviolabile» nell’albero. «L’economia – scrive – non è che un elemento concomitante». Più significativo dell’andamento della congiuntura è il manifestarsi di due profonde tendenze epocali: la tendenza al livellamento e all’accelerazione

Anche in questo senso l’albero porta il segno del tempo. E presta il significato della propria forma – figura viva e morente – a una lettura sintomatica dell’epoca.

***

Come l’albero, la pietra è, nel tempo, un segno dei tempi. Un vivente simbolo della vita. L’occasione per una lettura simbolica e sintomatica, divinatoria e prognostica (attenta cioè alla percezione cosmogonica dell’universo quanto alla previsione dello storico destino del mondo) del regno minerale si offrì a Jünger durante una gita nella valle dell’Eder. Un’escursione compiuta in gioventù e raccontata in questo Steine, che nel 1966 fu pubblicato per la prima volta in edizione privata come Gestein di A. Renger-Patzsch.

Laggiù, presso il corso del fiume, si era appena avviata la costruzione di una diga che decretava la fine di un piccolo villaggio, destinato a venire presto sommerso dalle acque. Una scelta economica dettata dall’esigenza di immagazzinare energia a discapito della fisionomia che il precedente (e già condannato) insediamento aveva conferito al paesaggio. Una discussione intavolata nella Stube locale con la gente del posto sulla formazione delle pietre fornisce allo scrittore lo stimolo per pensare alle pietre in relazione con il tempo. Con il tempo atmosferico, se agenti come l’erosione del vento, le spaccature provocate dal gelo o dalla calura, contribuiscono a mutare l’aspetto di rocce o scogliere. Anche con il tempo geologico però: quello delle glaciazioni e delle maree, di frane, terremoti o della crescita dirompente delle radici. È la storia della Terra, la Erdgeschichte che in Al muro del tempo si contrappone – concettualmente, gnoseologicamente – alla storia dell’uomo e del mondo (la Weltgeschichte, la storia universale). Ma che – ontologicamente, nella prospettiva di una filosofia della storia – la assorbe e comprende in sé.

In tal senso l’uomo, figlio della terra e costruttore di dighe, erige sul corpo della madre le proprie titaniche architetture che, per quanto invadenti e trasfiguranti se viste da vicino, nella prospettiva più ampia e lontana (la prospettiva «astronomica» di Der Arbeiter) fanno lo stesso effetto degli strati di diatomee, di minerali o di coralli depositati sulla pelle del pianeta.

Anche in questo caso lo sguardo di Jünger sulle distruttive costruzioni dell’epoca tardo moderna non è semplicemente ecologico. E alla pietra, al limite inerte materiale da costruzione, guarda (poeticamente) come a una creatura viva. Il poeta di riferimento è ancora Goethe, il Goethe delle Gedichte zur Farbenlehre: «Natur hat weder Kern noch Schale, / Alles ist sie mit einem Male». La natura non ha guscio né cuore, non ha nocciolo né buccia: il vivente, il Bios, abbraccia l’uno e l’altro. «L’essere o, come lo chiamava Goethe, “l’interiorità della natura”, resta sempre ugualmente lontano; è dunque sempre ugualmente vicino. Il suo miracolo; si nasconde nel tempo». Lo si osserva con evidenza sorprendente (miracolosa: das Wunder) nei depositi degli strati minerali formati dal nocciolo e dal guscio, dall’ossatura e dal carapace, dalle conchiglie, le corazze, gli scheletri e le zanne: da quel che di più duro negli organismi viventi assomiglia alla pietra e tende a farsi minerale. Viceversa, «nella stessa pietra fluttua una forza infinita». Jünger ne osserva le pulsazioni e l’evoluzione nelle metamorfosi delle rocce calcaree, nelle formazioni stalattitiche, nelle saline, nei vulcani. Oltre che nella fucina tellurica e mortale sepolta sul fondo delle miniere di Falun della fiaba di E. T. A. Hoffmann. E ancora l’arte, la letteratura, a soccorrere lo Jünger esploratore del regno minerale e intento a volgere in chiave cosmogonica anche i giudizi degli scienziati (del Wegmann a disagio di fronte alla distinzione rigorosa tra pietra magmatica e pietra non magmatica, per esempio).

La letteratura, oppure l’arte figurativa di un pittore come Hokusai che, nel ritrarre i sacri rilievi del Giappone o il mare, sovrappone il profilo del monte e la curva dell’onda, fino a confondere la neve delle cime con la spuma sulla cresta. Questo, scrive Jünger, «significa guardare attraverso il tempo».

Occhiata trasversale cui la pietra rivela la forza viva e fluttuante che porta in sé. Sia essa sarcofago a creature fossili o ricettacolo dell’acqua della vita.

***

Ai due componimenti dedicati ai mesi dell’anno Novembre e Dicembre, scritti rispettivamente nel 1959 e nel 1964, rinunciamo ad aggiungere parole di presentazione o di commento. Si presentano da sé, nella loro compiuta bellezza. Nell’altezza poetica che Jünger vi raggiunge a dispetto della loro intima privatezza. Evidentemente il filosofo scrive i due testi a Wilflingen, nella foresteria prospiciente il castello degli Stauffenberg (dove viveva dal 1950): si riconosce il paesaggio della campagna dell’Alta Svevia, ma persino le piante del suo giardino e l’amatissima Stauffenberglinde, il tiglio degli Stauffenberg che vedeva dalle finestre del suo studio. 

Scrittura privata, ma certo non intimistica, né ripiegata su di sé, per colui che dei propri diari aveva fatto un rituale di ascesi quotidiana oltre che un capolavoro. Neppure malinconica o consolatoria, però, la scrittura che accompagna i giorni precedenti l’inverno (rigidissimo da quelle parti).

Jünger vi parla di natura e di tempo. Del tempo che in natura si volge nel ciclo delle stagioni e, in quella più buia dell’anno, lascia intravedere le spie del ritorno della luce e del calore: le gemme del sambuco, i germogli dei tulipani, la fioritura del fico. Anche del tempo della vita, però, in cui «la morte allunga le sue antenne»: prefigurata dalla notte dell’inverno. Presentita come «l’altra luce» nella rivoluzione degli astri, e «da sempre presagita e venerata dalle genti».

[Nota alla mia traduzione

di L’albero. Quattro prose,

di Ernst Jünger,

Herrenhaus 2003]

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A perdifiato dentro il castello di Kafka

Kafka fu entusiasta delle prime traduzioni dei suoi lavori: La condanna, Il fochista, i raccontini raccolti nel primo libro pubblicato, Meditazione. Fu l’amica, l’amata Milena Jesenská a eseguirne la versione in lingua ceca, e Kafka si disse commosso della cura con cui la traduttrice aveva soppesato ogni frasetta. Quando i due entrarono più in confidenza, aprendo nel lungo carteggio il proprio cuore l’uno all’altra e lei, celiando sulla firma di lui in calce alle lettere, Franz K. che, nella sua grafia, sembrava tutta una parola, lo chiamava Frank, Kafka ancora ebbe occasione di apprezzarne e approvarne la passione traduttoria e, a proposito della versione di L’infelicità dello scapolo, in cui pare che lei avesse attribuito tratti più marcatamente vivaci al protagonista, commentò: «Naturalmente approvo in tutto la tua traduzione. Solo che sta all’originale come Frank sta a Franz».

Frank Kafka con la sorella Ottla a Zürau (oggi Siřem)

Con il conforto di questa – divertita, sorridente – indulgenza dell’autore si è avviata la presente traduzione di Il castello: il ricordo dell’episodio dava coraggio, valeva a dissipare l’inevitabile, paralizzante soggezione che questo gigante della letteratura e il suo grande romanzo, l’imponente costruzione della sua prosa potevano incutere. Kafka era un gigante davvero, più alto di tutta la testa di coetanei e contemporanei, lungo lungo com’era però, attesta chiunque lo avesse incontrato, si muoveva soave, leggero come un angelo: l’autore di La metamorfosi era un uomo-libellula. E così la sua scrittura: la grafia delicata, a caratteri piccoli, in cui spiccava – tratto deciso, impronta di personalità energica – la linea verticale delle consonanti; e la prosa nitida, schietta, minuziosa, cristallina, atta a penetrare, con incedere sicuro e quell’amore contagioso per «i dettagli miti» di cui parlava il suo maestro di ebraico Friedrich Thieberger, per i particolari tangibilmente concreti, la complessa architettura del mistero. 

Si doveva solo seguire e tenere il suo passo, lasciarsi portare e sorprendere, affidarsi al ritmo seducente della narrazione tenendo la vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho, letta con occhi innamorati e piglio un po’ troppo filosofico trent’anni fa, ben chiusa dentro a un baule in cantina. 

Due sono gli aspetti che il confronto corpo a corpo, vis-à-vis con il testo di Kafka lascia costantemente percepire: l’umorismo guizzante, radioso, irresistibile, ai limiti dell’esilarante comicità, e la musicalità che trascina suadente, sospinta da un possente respiro, l’intera partitura del testo. I due elementi sono reciprocamente legati, se è vero che l’effetto umoristico di una battuta o di un gesto – si veda K. al cospetto di Bürgel in quel capolavoro che è il capitolo XXIII o la burlesca, buffonesca, burattinesca gestualità degli aiutanti dalla loro comparsa sulla scena – è assicurato dal ritmo azzeccato, indovinato o calcolato in cui sono descritti e che la musica grandiosa, prodigiosa del testo, anche quando larga e grave, corrobora, dà forza e dà gioia. 

L’edificio che dominava Zürau-Siřem e che suscitò in Kafka l’immagine del castello

Leggendo – o, un po’ più lentamente, traducendo – non si resta mai senza fiato. Nemmeno quando il fraseggio è amplissimo, nemmeno quando il periodare è lunghissimo, quando la scrittura – annotata di notte, lo sappiamo, dall’autore in preda a una fervida ispirazione – si riversa sulla pagina con l’impeto di una piena e prosegue inarrestabile, spezzata ma non arrestata dai numerosi incisi, fino al lontano punto fermo. Questo è Kafka: i labirintici percorsi mentali, sì, gli ingarbugliati, inestricabili ingranaggi dell’esistenza, certo, ma anche la gioiosità, l’entusiasmo, la Begeisterung, ovvero presenza di spirito e sovrana ironia che gli diedero l’ardire di percorrerli per farne sfavillare l’enigma; che gli fecero sognare – raccontava l’impareggiabile Pietro Citati – di leggere da cima a fondo ad alta voce tutto d’un fiato l’Éducation sentimentale di Flaubert e magari di scrivere tutto d’un fiato, senza smettere né interrompersi, Il disperso o Il castello. La funzione fatica, per dirla alla Jakobson, «io ti dico che…», è talmente forte, il fascino della scrittura talmente potente, lo charme dell’autore talmente intrigante che non si può fare a meno di pendere dalle sue labbra fino alla fine. 

Inevitabile cercare di immaginarsi la sua voce. Stando a quanto ne dissero gli amici di gioventù ricordando colui che fece in tempo solo ad essere giovane – per esempio, per citare solo le testimonianze più toccanti, Urzidil in Di qui passa Kafka, Koch in Quando Kafka mi venne incontro… o più di recente Stach in Questo è Kafka? – la sua parlata era perfettamente coerente con la fisionomia della sua persona e della sua opera. Parlava piano, con voce calda e dolce, alta nel timbro, un’ironia lieve accompagnava sempre le sue parole. Il suo tedesco elegante, lindo, aveva «forse un leggero accento ma era privo di tracce dialettali», così Urzidil che, concittadino di Kafka, parlava lo stesso tedesco-praghese, conservato intatto in quell’isola linguistica fin dal medioevo. Era un tedesco privo di fratture tra lingua quotidiana e lingua letteraria, laddove la prima aveva l’altezza della seconda e la seconda la semplicità della prima, permeato da «l’immensa musicalità naturale» delle melodie popolari boeme. Quella musica dovette improntare le costruzioni sintattiche di Kafka che occasionalmente, ma solo in casa, canticchiava da tenore: schivo com’era, mai più si sarebbe esibito in concerto, anche se per un periodo suonò il secondo violino in un quartetto d’archi. Leggere in pubblico però gli piaceva, leggeva con perfetta chiarezza a velocità vertiginosa, con i crescendo dinamici che ritornano sulla sua pagina. In traduzione quelle sonorità, quel respiro lunghissimo dovevano essere rispettati, conservati, quantomeno evocati. Certo la lingua è un’altra, con possibilità lessicali e sintattiche diverse, e la voce che ripete le parole di Kafka è femminile, proprio come quella di Anita e di Milena, tutte quante devotamente intente a restituire un’eco del dettato di Franz K.

Lucca, marzo 2023

Alessandra Iadicicco

(nota alla nuova traduzione di Das Schloß pubblicata da Il Saggiatore nell’aprile del 2023)

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Wittgenstein è un arcobaleno blu

OmbrelloUn ombrello si chiude come un punto di domanda sul terreno più saldo e sicuro. È proprio blu – possibile? – l’arcobaleno che si inarca sul sistema dei colori. Un uomo che brancola cercando inciampa – o forse danza? – sulle lettere della propria Weltanschauung. Il metafisico – o è un mistico invece? – ha l’aureola. La serie dei numeri primi si sviluppa come una scala tonale, come una sequenza musicale, come un cruciverba, come una scacchiera… Serrato nella gabbia del linguaggio, della forma logica, delle auctoritates, posso sempre spalancare una finestra. Riconosco ciò che è vero con un abbraccio… e sto lì, sulla mia vita, come una farfalla cullata da un filo d’erba.

Poetici, enigmatici, oscuri, illuminanti, proprio come gli aforismi di Ludwig Wittgenstein sono i disegni di Margherita Morgantin. Artista tra le più quotate nel panorama italiano contemporaneo, attratta chissà perché dalla malia del filosofo di Vienna, ha inventato per lui quelle che, più che illustrazioni o, Dio la scampi, spiegazioni del suo pensiero sono variazioni, ispirate intuizioni, estrose fantasie accese dai mille dubbi “della certezza”.  Continua a leggere

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Il mondo dei Grimm

biancaneveMagia dell’alfabeto, malia di un glossario da aprire come uno scrigno di segreti, malizia di un mondo ordinato mettendo in fila le parole dalla A alla Z, da “Ärschlein” a “Zettel”, come dire: “da culetto a biglietto”, secondo la formula sconcertante stampata – come titolo del catalogo e della mostra permanente – sull’invito a esplorare il mondo dei Grimm. Grimmwelt, meglio chiarire subito, non è una Disneyland tradotta in lingua germanica e trasposta in terra teutonica. Le comitive di turisti in viaggio a Kassel e in visita a nuovissimo museo dedicato all’universo dei fratelli collezionisti di favole non si aspettino di varcare il cancello del regno fatato come la porta d’ingresso di un parco di divertimenti. Negli spazi espositivi estesi per oltre duemila metri quadri fin sul tetto panoramico della struttura edificata come un avveniristico maniero non troveranno rospi da baciare, torri da scalare arrampicandosi alla lunga treccia di Rapunzel, la bionda Raperonzolo, o lupi da smascherare tra le lenzuola e sotto la cuffietta della nonna di Cappuccetto Rosso. Potranno, sì, sedersi alla tavola dei sette nani di Biancaneve. Porre domande allo specchio parlante che lusingava le brame della Matrigna. Scoprire, sfogliando autografi ricettari, i prodigi e le insidie del più bizzarro e bitorzoluto dei frutti, la mela cotogna. O rompere il sortilegio della figlia del mugnaio condannata a filare oro dalla paglia, sentendo pronunciare in ventotto lingue diverse il nome dello gnomo Tremotino, tradotto anche come Gambolino, ovvero, in originale, Rumpelstilzchen. Solo scoprendo come si chiamava il misterioso omino zoppo che la teneva in suo potere e minacciava di rapirle il figlio primogenito la ragazza, andata in sposa al re, avrebbe spezzato l’incantesimo e salvato da malasorte il principino. Potenza seducente, effetto dirompente di un nome…  Continua a leggere

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Le intraducibili

Schermata 2015-03-21 a 04.05.47Sappiamo tutti di che cosa si sta parlando, ma il più delle volte ignoriamo che c’è una parola per dirlo. Perciò suona come un abracadabra, una formula magica (o un lampo di poesia) l’espressione che, tutto d’un fiato, nomina ciò che si credeva ineffabile, chiama all’appello e a rapporto situazioni o sensazioni “inaudite” solo perché non ancora registrate con un proprio nome, né ancora messe a verbale nella propria lingua. Quando però manca la parola, dorme la citazione calzante dentro un libro mai aperto, il nome sfugge, c’è sempre modo di andarlo ad acchiappare oltrefrontiera. Gli scozzesi dicono “to tartle” quell’esitazione balbettante e imbarazzata di chi, di fronte al suo interlocutore, è sopraffatto da un vuoto di memoria, dimentica il nome del tizio con cui sta parlando, e magari – circostanza aggravante – deve pure presentarlo a una terza persona che non vede l’ora di farne la conoscenza. Allora cerca invano con gli occhi, schiocca le dita, prova diplomaticamente a stimolare suggerimenti e alla fine non può fare altro che ammettere la sua imperdonabile dimenticanza. Aiuta in questo caso a cavarsi dagli impicci chiamare la pausa di silenzio col suo nome, scusarsi e riannodare il filo della conversazione chiedendosi per esempio se in Scozia capiti più spesso che altrove di incappare in una così comune defaillance.

Colma un diverso vuoto di parole quel che i tedeschi definiscono un “Treppenwitz”, che alla lettera corrisponde allo “humour delle scale”, alla battuta che ti viene in mente quando ormai sei già in fondo ai gradini, alla risposta a tono che avresti voluto dare a chi ti aveva zittito su di sopra, quand’eri ancora in sala, prima che, con la bocca chiusa e le pive nel sacco, avessi deciso di scender giù verso l’uscita. Continua a leggere

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Scrivere lettere

valentine_de_boulogne_san_paolo_scrive_epistole_1620Anonime, laconiche, le più antiche ci arrivano recapitate dalla Grecia. Non sono datate né affrancate, ma il frammento di coccio su cui le graffiarono, la lamina di piombo su cui le arrotolarono risalgono con buona approssimazione al VI secolo dell’epoca precristiana e presocratica. Non sono imbustate o sigillate ma, più della vaga identità del mittente, più dell’incertezza del destinatario, è l’alone d’intrigo che le avvolge a preservarne la riservatezza. Non sono intestate né indirizzate, ma la tensione che tuttora le innerva, l’urgenza di una comunicazione (protesta, dichiarazione o sos), lo slancio vocativo di un contatto ne tradiscono infallibilmente il genere. Sono lettere. E basta il loro testo nudo e crudo – ellittico, spoglio di fronzoli o di decotte formalità – a svelarne tutta la croccante freschezza. “Thamneus lascia la sega sotto la soglia della porta del giardino”. “Emelis, vieni più presto che puoi”. La trama di un delitto? La trama segreta di un amore? Comunque fosse, dalla traccia che ne resta c’è da tirarci fuori un romanzo. Continua a leggere

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