«Giro il mio mantra: la matita nel temperino», annota Peter Handke in una riga del suo diario, il suo Journal, come lui stesso chiama il taccuino in cui da anni, da sempre, pratica l’esercizio di un’attenzione giornaliera. Basta una riga, un gesto, che si compie inequivocabilmente come un rito, a dare il senso di quanto segreto e insieme solenne, intimo e insieme universale, silenzioso e tuttavia carico di energia sia il momento in cui lo scrittore si prende cura del suo inseparabile utensile, affila la sua arma – oggetto potente quanto innocente -, prepara il suo strumento di scrittura e di cattura. Sono naturalmente tutte incruente le sfide che affronterà con la matita in pugno, quell’arma così sottile e acuminata non farà vittime, né la sua impresa punterà a riportare vittorie o trofei. Eppure, a noi che lo leggiamo da anni avvertendo sulle sue pagine la tensione viva della parola che aspira a far presa sul mondo, Handke appare come una figura eroica. Tanto più là dove l’intonazione della sua scrittura si fa più assorta, dubitativa, meditativa Continua a leggere