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Libri e kalashnikov

Schermata 2014-05-09 a 05.16.35Quando ancora la si intravede appena, già la si guarda con un brivido di inquietudine e una punta di sospetto. Dev’essere una maga, una strega, una specie di veggente o di pazza sapiente. E’ donna, è vecchia, è sola, appare dalla penombra e, anche in una luce così fioca, ha i capelli inequivocabilmente blu. E’ intenta a misteriosi rituali: lavacri battesimali, brindisi notturni, gesti apotropaici, invocazioni propiziatorie. Forse sta parlando con i morti, o si dispone ad ascoltare gli dei, o a prestare la sua voce – di invasata, di medium – a spiriti grandi, scomparsi, lontani, stranieri. Proprio così. E’ infatti una traduttrice. Lo è da una vita. Fa da una vita quello che sarebbe inappropriato definire un lavoro. Non perché gratuito o malpagato: di questo lei, nel suo lungo racconto di sé, aristocraticamente non fa cenno. Né perché semisegreto, compiuto in solitudine, svolto in tempi incalcolabili, imprevedibili, prossimi ai cicli stellari e auspicabilmente lentissimi, destinato, se riuscito, a restare inaudito, affinché tutti porgano bene orecchio all’autore originale del testo.

Del testo – originalissimo – di Rabih Alameddine però, scritto con seducente complicità verso il suo personaggio dall’autore nato in Giordania, cresciuto in Libano e residente a San Francisco, tradotto con irresistibile capacità di immedesimazione da Licia Vighi, la protagonista e voce narrante è proprio “La traduttrice” (Bompiani, 303 pagine, 18 euro). E’ una creatura fantastica, spaventosa, esotica, ammaliante fin dal primo sguardo, che la coglie nel crepuscolo di un mattino d’inverno nel suo appartamento di Beirut mentre osserva inorridita allo specchio gli effetti dello shampoo Bel Argent con cui si è appena lavata i capelli: studiato apposta per smorzare il grigiore della canizie, ha invece acceso sulle sue lunghe ciocche una vivace tonalità di azzurro, “fortunatamente diverso da quello della bandiera israeliana”. Continua a leggere

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Con W. G. Sebald: Rotta su Saturno

Schermata 2014-04-19 a 22.03.46Converrebbe aggrapparsi al bandolo di un filo – un filo di seta – per addentrarsi nel libro più denso, oscuro, criptico, labirintico di Winfried Georg Maximilian Sebald. Converrebbe tenere stretta la sua cima per non perdercisi dentro, per venire a capo di una trama di pensieri, intreccio di coincidenze, intrico di reminiscenze e visioni che possono perdutamente ammaliare. O si dovrà cedere volonterosamente alla sua malia. Raccogliere fiduciosi, ignari via via ma via via sempre più attenti, i segmenti di filato, le impunture nel tessuto, i nodi nell’ordito che l’autore – narratore, tessitore e viaggiatore – dissemina sulla propria strada senza apparentemente porgerli al lettore. Procede egli stesso infatti, pellegrino in Inghilterra e viandante siderale orientato da “Gli anelli di Saturno”, in un dedalo dal disegno fatale. Quale che sia l’esito del suo attraversamento – la perdizione, o una rivelazione – sarà impossibile affrontarlo senza mettersi rischiosamente in gioco. Sebald si gioca il tutto per tutto. Punta sul premio finale – la speranza di salvezza, il miraggio di un’uscita, la conquista di un’altezza da cui almeno rimirare i tremendi ghirigori del percorso – a costo di uno smarrimento personale. Il lettore che oggi ripercorre le tracce da Sebald stesso ripassate dopo il suo ritorno è invitato a tentare lo stesso azzardo. E non è detto che ne esca vincente, che approdi a una risoluzione, che attinga l’intuizione dell’arcano che un velo di scrittura sontuosamente ricamata, baroccamente erudita, fittamente intessuta di citazioni, meravigliosamente trapunta di evocazioni lascia trasparire. Sebald però è un giocatore leale. Tende enigmi, non trappole. E’ autore che scrive per una necessità vitale. Anche chi non raccolga rischiando fino in fondo la sua sfida – nessuno è tenuto a farlo: per un sacrosanto diritto all’incredulità, o alla critica presa di distanza – non riesce a evitare di farsi attrarre, spiazzare, disorientare da un’opera tanto estrema e singolare.

“Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra” fu scritto oltre un anno dopo il viaggio a piedi compiuto dall’autore nel 1992 nella contea di Suffolk, tra le coste e le lande desolate dell’East Anglia. Continua a leggere

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