Quando ancora la si intravede appena, già la si guarda con un brivido di inquietudine e una punta di sospetto. Dev’essere una maga, una strega, una specie di veggente o di pazza sapiente. E’ donna, è vecchia, è sola, appare dalla penombra e, anche in una luce così fioca, ha i capelli inequivocabilmente blu. E’ intenta a misteriosi rituali: lavacri battesimali, brindisi notturni, gesti apotropaici, invocazioni propiziatorie. Forse sta parlando con i morti, o si dispone ad ascoltare gli dei, o a prestare la sua voce – di invasata, di medium – a spiriti grandi, scomparsi, lontani, stranieri. Proprio così. E’ infatti una traduttrice. Lo è da una vita. Fa da una vita quello che sarebbe inappropriato definire un lavoro. Non perché gratuito o malpagato: di questo lei, nel suo lungo racconto di sé, aristocraticamente non fa cenno. Né perché semisegreto, compiuto in solitudine, svolto in tempi incalcolabili, imprevedibili, prossimi ai cicli stellari e auspicabilmente lentissimi, destinato, se riuscito, a restare inaudito, affinché tutti porgano bene orecchio all’autore originale del testo.
Del testo – originalissimo – di Rabih Alameddine però, scritto con seducente complicità verso il suo personaggio dall’autore nato in Giordania, cresciuto in Libano e residente a San Francisco, tradotto con irresistibile capacità di immedesimazione da Licia Vighi, la protagonista e voce narrante è proprio “La traduttrice” (Bompiani, 303 pagine, 18 euro). E’ una creatura fantastica, spaventosa, esotica, ammaliante fin dal primo sguardo, che la coglie nel crepuscolo di un mattino d’inverno nel suo appartamento di Beirut mentre osserva inorridita allo specchio gli effetti dello shampoo Bel Argent con cui si è appena lavata i capelli: studiato apposta per smorzare il grigiore della canizie, ha invece acceso sulle sue lunghe ciocche una vivace tonalità di azzurro, “fortunatamente diverso da quello della bandiera israeliana”. Continua a leggere