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Le opere e i giorni del poeta in fuga dalle due Germanie

Uwe-Johnson-am-Inselsee-Guestrow-1953-FUna marina spettacolare, ipnotica, insieme incantevole e inquietante, apre e chiude il romanzo. La sola cosa da fare è tuffarcisi dentro. Comunque vada, nuotatore esperto o incauto che tu sia, la scrittura finirà per risucchiarti, trasportarti, travolgerti dove i gorghi delle correnti alterne fanno le acque più perigliose, condurti dove vuole lei. Accade anche a “lei”, alla protagonista del sontuoso romanzo di Uwe Johnson, alla Gesine Cresspahl dalla cui vita l’autore registra giorno per giorno gli eventi occorsi in un anno. All’inizio la vediamo in acqua, tra le onde lunghe dell’Atlantico. Appagata, coraggiosa, magnifica, «nuota a braccia tese», ma le onde, oltre la risacca, «la traggono di schiena», la riportano indietro, a una spiaggia del passato. E già le acque dell’oceano si mescolano e si confondono con quelle di un altro mare, con lo sciacquettio del Baltico, nel Nord Est della Germania, che un vento come quello che batte la costa del New Jersey riusciva tutt’al più a rendere increspato. Con un respiro lunghissimo, con bracciata possente e sicura, con l’energia e la precisione non già dell’atleta allenato, stavolta, ma del narratore grandioso, Johnson va a concludere il suo capolavoro, 1891 pagine dopo, ancora sulla visione di una spiaggia. È la stessa spiaggia? Quella raggiunta in due ore di treno da New York, dove Gesine vive con la figlia decenne Marie ormai da sette anni? Quella a Nord di Jerichow, il paesino del Meclemburgo nell’entroterra del Baltico dove è nata e cresciuta e da cui è fuggita tanto tempo fa? No, è un’altra ancora. Eppure, anche lì, lo schiaffo dell’onda, la ghiaia che scorre contro i malleoli fanno lo stesso rumore. E anche lì, con gli occhi socchiusi per la luce resa più intensa dal riverbero, si intravede la stessa scena: «una bimba; un uomo in cammino verso il luogo dove sono i morti; e lei, la bimba ch’ero io». È l’ultima pagina di Jahrestage, I giorni e gli anni, che, con un brivido di commozione, finalmente possiamo leggere in italiano, grazie al fantastico lavoro di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, gli eccellenti traduttori. Continua a leggere

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Gunter Grass, un ritratto

grass_gunter_Baffi fluenti, sopracciglia arruffate, le spalle incurvate che mimano la linea del dorso della pipa, immancabilmente stretta tra le labbra. Bastano poche pennellate per mettere in rilievo i tratti inconfondibili della fisionomia di Günter Grass, che lo stesso Günter Grass, pittore prima che scrittore, si è divertito più di una volta a caricaturare nei numerosi autoritratti. Con i disegni ha illustrato uno dopo l’altro i suoi romanzi, confondendo il proprio profilo con quello dei suoi personaggi. E così, sulla copertina del “Tamburo di latta” (1959) si presentava nella statura breve del nano Oskar Matzerath, gli occhi di bambino “nella perennità dei suoi tre anni” aperti a guardare gli eventi del mondo che diventavano storia, le mani strette a pungo sulle bacchette con cui batteva (a volte furiosamente) sullo strumento bianco e rosso scandendo lo scorrere del tempo. Oppure, per dare un volto all’autore degli appunti “Dal diario di una lumaca” (1972), in cui sono registrate le tappe del viaggio compiuto nel 1969 accanto a un Willy Brandt in campagna elettorale, attorcigliava nell’iride dell’occhio la spirale del guscio di una chiocciola. E, ancora, illustrando la cronaca del suo soggiorno indiano, “Mostrare la lingua” (1988), non disegnava la dea di Calcutta, Kalì mentre, come vuole il titolo del libro, manifestava disprezzo e vergogna con la sfrontata boccaccia infantile, bensì se stesso che, gli occhi sbarrati dietro gli occhiali, osservava il rettile, o l’anguilla o l’angosciosa creatura anfibia che strisciava fuori dalle proprie labbra. O infine, dopo il breve (e letterariamente fallimentare) passaggio in India, quando tornò a scrivere di Germania per richiamare all’assennatezza i tedeschi all’indomani di una dissennata riunificazione, immaginava di rivolgersi loro con il verso di un rospaccio del malaugurio. E accompagnava “Il richiamo dell’ululone” (1992) con un ritratto di se stesso visto di profilo mentre guarda negli occhi il grosso ranocchio dal dorso verrucoso che, in Germania, le tradizioni popolari vogliono saggio nunzio di sventure.

La galleria degli autoritratti del più famoso scrittore tedesco vivente tende a scivolare verso il suo fantastico bestiario di animali simbolici, funestamente profetici. Alla lumaca, immagine di un progresso “che va troppo piano” e all’ululone, sinistro e inascoltato preveggente, vanno poi aggiunti i cani, i gatti, i topi. “La ratta” (1986) che sopravviverà alla fine dell’umanità e “Il rombo” (1977) che dell’umanità rievoca le origini remote, indietro fino al neolitico.  Continua a leggere

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La voce del Muro

Schermata 2014-11-16 a 14.16.35Fu eretto in una notte 53 anni fa. In una notte 25 anni fa fu distrutto. E il tempo che impiegò a incidere “un taglio nella carne”, “nella testa” e “attraverso il paese” dei tedeschi è pari almeno a quello impiegato poi a smaterializzarsi, perdere sostanza, trasformarsi lentamente da barriera, cesura, ferita aperta, in un’ombra, uno spettro, una fata morgana. Una ancora sensibile se pur non più visibile cicatrice. Una linea di orizzonte: lontana, intangibile eppure ancora buona a orizzontarsi. Parliamo del Muro di Berlino. “Un taglio nella propria carne / un taglio attraverso la terra” sintetizzava in due versi del 1992 il poeta Bernd Jentsch. “Un muro nelle teste” lo aveva definito dieci anni prima lo scrittore Peter Schneider, profetizzando nel 1982 che ci sarebbe voluto più tempo a sradicarlo dall’immaginario dei suoi connazionali di quanto avrebbe potuto impiegarne un’impresa di demolizioni per abbatterlo. Nel corso del quarto di secolo passato dal suo crollo – l’anniversario della caduta si celebra il 9 novembre – la letteratura non ha effettivamente smesso di misurarvisi. Prendendone via via distanza, sì: sulle prime la distanza dell’ironia, del disimpegno, del disincanto, e alla lunga quella adatta a proiettarvi visioni emblematiche, simboli, parabole. Ma facendovi costantemente riferimento. E’ di quest’autunno, per fare l’esempio più recente, l’acclamato (e bellissimo) romanzo d’esordio del poeta “ostdeutsch” Lutz Seiler: “Kruso”, uscito a settembre da Suhrkamp, premiato alla vigilia della Fera di Francoforte con il Deutscher Buchpreis (il più prestigioso riconoscimento letterario tedesco, garanzia di successo di vendite in libreria) e annunciato in traduzione italiana per maggio dall’ottimo editore Del Vecchio. Ebbene, si tratta del racconto magico-realistico, narrato con un distillato di parole (solo un poeta avrebbe potuto secernerne di così dense e cristalline) dell’ultima estate della DDR, vissuta da un ragazzo in fuga sull’isola baltica di Hiddensee. Continua a leggere

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