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EPIFANIE DEL TEMPO 

di Alessandra ladicicco

Der Baum ist so entflammt vom Herbst,
ein so unmäßiger goldner Fleck,

daß er aussieht, als wäre er eine Fackel,
die ein Engel fallen gelassen hat.

Und nun brennt er,
und Herbstwind und Frost
können ihn nicht
zum Erlöschen bringen.

[L’albero è talmente infiammato d’autunno,
una tale smisurata macchia d’oro
che appare come fosse la fiaccola
che un angelo ha lasciato cadere.

E adesso arde, e il vento autunnale
e il gelo non riusciranno a spegnerlo].

Ingeborg Bachmann, 

Jugend in einer österreichischen Stadt

Consentire all’inverno,
ultimo esalare di tutti i sentori,
prima del rapprendersi silente e algido
della neve
prima del sopravvenire del suo
sconosciuto odore bianco.

Luisa Bonesio, Le Selci

Autunno senza alcuno struggimento. Appena quel tanto di malinconia impersonata dall’angelo düreriano che, allherbstlich, è di ritorno ad ogni autunno perché gli si offrano sacrifici senza sfuggirgli.

In una stagione tardoautunnale dell’esistenza, tra il 1959 e il ’66, dunque tra i sessantaquattro e i settantun’anni, Ernst Jünger compose i quattro saggi poetici, definiamoli così, che sono qui raccolti. Nel corpus della sua opera letteraria e teorica, sono scritti che si collocano tra An der Zeit-mauer (1959) e Siebzig verweht (1965-1995). Dunque tra il muro del tempo e l’«età biblica» , il biblische Alter che «Passati i settanta», avvia la stesura degli ultimi diari. Un’età che, come i mesi dell’anno che introducono l’inverno e come il loro angelo – angelo dell’autunno e della meditazione evocato dall’autore all’inizio di Novembre e raffigurato nella veste della Melancholia di Albrecht Dürer anche nelle prime pagine del Sanduhrbuch – invita a meditare sul tempo.

Certo non, come vorrebbero immaginazione collettiva e luoghi comuni, al tempo che passa e che fa invecchiare. Per lo Jünger che il muro del tempo ha già scavalcato o, piuttosto, ha percorso tenendovisi stretto d’accosto, autunno e vecchiezza non hanno la coloritura sentimentale del crepuscolo di un’epoca finale. Alla fine, invece – la fine dell’anno solare, dell’umana esistenza segnata di finitudine, di una fase storica della civiltà occidua e tramontante – Jünger guarda attraverso la pluralità dei suoi simboli. Simboli che, tutti, rinviano al tempo. E, appunto in quanto simboli, inscritti nel tempo, ontologicamente radicati nel tempo, vi rimandano per via di una significazione non decifrabile fino all’ultimo fondo con la linearità della logica.

Anzitutto l’albero. Nel testo del 1962 (che uscì per la prima volta come edizione privata in Bäume di A. Renger Patsch), Jünger lo descrive come un simbolo variamente evocativo. Dell’altezza e della profondità, della madre e del padre, di protezione e possanza. Soprattutto, e in molti sensi diversi, l’albero evoca il tempo. Le età e le generazioni degli uomini: le genealogie e le discendenze che intrecciano le trame dei loro legami nelle sue radici e nella sua chioma. O la brevità della vita che, cantata nel pio memento del Salterio citato dal filosofo (Salmo 88,48 e Salmo 89,5-6), è misurata dall’esiguità del segmento che congiunge, su distanze centenarie, gli anelli annuali del tronco. Misura visibile e non convenzionale, se i cerchi che scandiscono il ciclo solare crescono nella sostanza viva del libro ligneo. E, ancora, è il legno della bara, nave che conduce il defunto nell’ultimo viaggio, «imbarcazione e veicolo per la via cosmica». O è traccia vitale di epoche arcaiche, della preistoria di foreste che, scaldate al sole di estati remotissime, restituiscono quel calore nella forma del carbone che brucia, databile, per un fisico, con esattezza matematica. 

L’albero ha memoria lunga. Ciò lo abilita a intrattenere un rapporto con l’eterno. «L’albero, come la clessidra, è un simbolo dei tempi che si intersecano nell’eterno». Certo non lo raggiunge abbracciando l’ampiezza di cronologie di lunghissimo corso. Né sommando gli istanti innumerevoli di un’età da vegliardo. L’eterno non risulta da una somma. All’emblema dell’eterno non occorrono quantitative e commensurabili grandezze. Bastano le dimensioni del seme. O la sezione del colletto della radice che, come il collo della clessidra, non corrisponde semplicemente alla parte di uno strumento misuratore del tempo bensì è di volta in volta l’istante puntuale e presente del tempo: «il punto che chiamiamo attimo». Lo stesso vale per il seme, l’evangelico granello di senape (che è Gleichnis: parabola e simbolo del Regno dei Cieli in Mt 13,31) o qualsiasi naturale ricettacolo di vita vegetale cui si guardi in una prospettiva non «spermatica» ma «pneumatica». Non solo nell’ottica botanica, dunque, ma anche in un’ottica spirituale. Allora il seme accennerà all’Indispiegato che porta in sé. Senza che per questo vi sia cesura alcuna tra l’indifferenziato di cui la scienza «sa» e l’Indistinto (das Ungesonderte) che lo spirito intuisce e presentisce. 

Per lo Jünger filosofo ed esperto di scienze fin nell’esattezza dei lessici specialistici, le due cose sono la stessa cosa. Per lo Jünger goethiano, il fenomeno che appare in natura (oggetto delle Naturwissenschaften) e il fenomeno che si manifesta nell’ontologia del regno vivente (perscrutato da pensatori e poeti) sono la stessa cosa. Urphänomen, fenomeno originario. Fenomeno cioè che, per Jünger come per Goethe, si libera del limite gnoseologico definitivamente impostogli, dopo due secoli di metafisica, da Kant. Che perde il significato debole e negativo di parvenza e acquista quello pieno e forte di epifania dell’Invisibile: dispiegarsi reale e vitale dell’essere.

Non è un caso se lo Jünger che, con ardite sinossi, o stereoscopie sovrappone alle categorizzazioni scientifiche (senza invalidarle) le forme dell’ontologia, o conferisce all’ordine concettuale della natura la terza dimensione della profondità in cui si spinge la logica del simbolo, guardi alle tassonomie dei botanici con occhi da fisionomo. I diversi generi e specie di albero gli appaiono come le forme di caratteri fisiognomici distinti: gli appaiono perciò «come essenze e non come specie».

Jünger si richiama alla fisiognomica come all’antica disciplina che nei lineamenti di un volto o nel disegno della trama dei rami vede i tratti in cui – letteralmente – prende corpo (e non si maschera in esso), si pone in essere (e non decade nella materia da un qualche metafisico aldilà) quel che esiste. E della fisiognomica si serve per guardare il fenomeno (in questo caso l’albero) come all’espressione di un destino singolare, individuale, personale. «L’albero è una grandezza in cui la natura acquista individualità, meglio: personalità» E, come un singolo, è dal singolo riconosciuto: dall’individuo che, nel tipo del proprio albero ideale (al alto fusto piuttosto che di chioma frondosa, di fitta ramificazione piuttosto che di profilo sottile e slanciato) riconosce una ideale forma di totem. È questa una sorta di agnizione che, al di là delle ordinate tassonomie per cui certamente un faggio si distingue da una quercia e un tasso da un cipresso, arriva a individuare quel che «istintivamente sappiamo che cos’è».

Sapienza istintiva. Sapienza che raggiunge uno strato più profondo delle classificazioni botaniche, ma anche delle preferenze artistiche che dettano i canoni di stili diversi. Persino più profondo delle differenze sessuali: se è vero che le piante monoiche portano fiori sia maschili sia femminili e che le lingue storiche attribuiscono all’albero generi diversi, come il latino, che ne declina al femminile anche i nomi con desinenza maschile. 

Che ne è oggi delle profondità di questo sapere dell’albero, del suo spessore simbolico? Viviamo, scrive Jünger, «in un’epoca maldisposta verso l’albero». Epoca «di consumo sfrenato» e di «sperpero inaudito» che non si fa scrupolo di aggredire boschi e foreste per alimentare una produzione rapinosa e vorace.

Jünger però non pone nei termini – attualissimi, a rischio di banalizzazioni giornalistiche – dell’ecologia la questione di un’economia che sortisce come esito ultimo la perdita del simbolico e la violazione dell’«Inviolabile» nell’albero. «L’economia – scrive – non è che un elemento concomitante». Più significativo dell’andamento della congiuntura è il manifestarsi di due profonde tendenze epocali: la tendenza al livellamento e all’accelerazione

Anche in questo senso l’albero porta il segno del tempo. E presta il significato della propria forma – figura viva e morente – a una lettura sintomatica dell’epoca.

***

Come l’albero, la pietra è, nel tempo, un segno dei tempi. Un vivente simbolo della vita. L’occasione per una lettura simbolica e sintomatica, divinatoria e prognostica (attenta cioè alla percezione cosmogonica dell’universo quanto alla previsione dello storico destino del mondo) del regno minerale si offrì a Jünger durante una gita nella valle dell’Eder. Un’escursione compiuta in gioventù e raccontata in questo Steine, che nel 1966 fu pubblicato per la prima volta in edizione privata come Gestein di A. Renger-Patzsch.

Laggiù, presso il corso del fiume, si era appena avviata la costruzione di una diga che decretava la fine di un piccolo villaggio, destinato a venire presto sommerso dalle acque. Una scelta economica dettata dall’esigenza di immagazzinare energia a discapito della fisionomia che il precedente (e già condannato) insediamento aveva conferito al paesaggio. Una discussione intavolata nella Stube locale con la gente del posto sulla formazione delle pietre fornisce allo scrittore lo stimolo per pensare alle pietre in relazione con il tempo. Con il tempo atmosferico, se agenti come l’erosione del vento, le spaccature provocate dal gelo o dalla calura, contribuiscono a mutare l’aspetto di rocce o scogliere. Anche con il tempo geologico però: quello delle glaciazioni e delle maree, di frane, terremoti o della crescita dirompente delle radici. È la storia della Terra, la Erdgeschichte che in Al muro del tempo si contrappone – concettualmente, gnoseologicamente – alla storia dell’uomo e del mondo (la Weltgeschichte, la storia universale). Ma che – ontologicamente, nella prospettiva di una filosofia della storia – la assorbe e comprende in sé.

In tal senso l’uomo, figlio della terra e costruttore di dighe, erige sul corpo della madre le proprie titaniche architetture che, per quanto invadenti e trasfiguranti se viste da vicino, nella prospettiva più ampia e lontana (la prospettiva «astronomica» di Der Arbeiter) fanno lo stesso effetto degli strati di diatomee, di minerali o di coralli depositati sulla pelle del pianeta.

Anche in questo caso lo sguardo di Jünger sulle distruttive costruzioni dell’epoca tardo moderna non è semplicemente ecologico. E alla pietra, al limite inerte materiale da costruzione, guarda (poeticamente) come a una creatura viva. Il poeta di riferimento è ancora Goethe, il Goethe delle Gedichte zur Farbenlehre: «Natur hat weder Kern noch Schale, / Alles ist sie mit einem Male». La natura non ha guscio né cuore, non ha nocciolo né buccia: il vivente, il Bios, abbraccia l’uno e l’altro. «L’essere o, come lo chiamava Goethe, “l’interiorità della natura”, resta sempre ugualmente lontano; è dunque sempre ugualmente vicino. Il suo miracolo; si nasconde nel tempo». Lo si osserva con evidenza sorprendente (miracolosa: das Wunder) nei depositi degli strati minerali formati dal nocciolo e dal guscio, dall’ossatura e dal carapace, dalle conchiglie, le corazze, gli scheletri e le zanne: da quel che di più duro negli organismi viventi assomiglia alla pietra e tende a farsi minerale. Viceversa, «nella stessa pietra fluttua una forza infinita». Jünger ne osserva le pulsazioni e l’evoluzione nelle metamorfosi delle rocce calcaree, nelle formazioni stalattitiche, nelle saline, nei vulcani. Oltre che nella fucina tellurica e mortale sepolta sul fondo delle miniere di Falun della fiaba di E. T. A. Hoffmann. E ancora l’arte, la letteratura, a soccorrere lo Jünger esploratore del regno minerale e intento a volgere in chiave cosmogonica anche i giudizi degli scienziati (del Wegmann a disagio di fronte alla distinzione rigorosa tra pietra magmatica e pietra non magmatica, per esempio).

La letteratura, oppure l’arte figurativa di un pittore come Hokusai che, nel ritrarre i sacri rilievi del Giappone o il mare, sovrappone il profilo del monte e la curva dell’onda, fino a confondere la neve delle cime con la spuma sulla cresta. Questo, scrive Jünger, «significa guardare attraverso il tempo».

Occhiata trasversale cui la pietra rivela la forza viva e fluttuante che porta in sé. Sia essa sarcofago a creature fossili o ricettacolo dell’acqua della vita.

***

Ai due componimenti dedicati ai mesi dell’anno Novembre e Dicembre, scritti rispettivamente nel 1959 e nel 1964, rinunciamo ad aggiungere parole di presentazione o di commento. Si presentano da sé, nella loro compiuta bellezza. Nell’altezza poetica che Jünger vi raggiunge a dispetto della loro intima privatezza. Evidentemente il filosofo scrive i due testi a Wilflingen, nella foresteria prospiciente il castello degli Stauffenberg (dove viveva dal 1950): si riconosce il paesaggio della campagna dell’Alta Svevia, ma persino le piante del suo giardino e l’amatissima Stauffenberglinde, il tiglio degli Stauffenberg che vedeva dalle finestre del suo studio. 

Scrittura privata, ma certo non intimistica, né ripiegata su di sé, per colui che dei propri diari aveva fatto un rituale di ascesi quotidiana oltre che un capolavoro. Neppure malinconica o consolatoria, però, la scrittura che accompagna i giorni precedenti l’inverno (rigidissimo da quelle parti).

Jünger vi parla di natura e di tempo. Del tempo che in natura si volge nel ciclo delle stagioni e, in quella più buia dell’anno, lascia intravedere le spie del ritorno della luce e del calore: le gemme del sambuco, i germogli dei tulipani, la fioritura del fico. Anche del tempo della vita, però, in cui «la morte allunga le sue antenne»: prefigurata dalla notte dell’inverno. Presentita come «l’altra luce» nella rivoluzione degli astri, e «da sempre presagita e venerata dalle genti».

[Nota alla mia traduzione

di L’albero. Quattro prose,

di Ernst Jünger,

Herrenhaus 2003]

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Atlantico Jünger

Schermata 2015-03-04 a 02.53.28Neanche dopo una schiacciante vittoria sportiva il grande tedesco in villeggiatura a Rio de Janeiro sarebbe stato orgoglioso del suo paese, e l’idea di ritornarci gli avrebbe suscitato un tremendo umor nero. Certo, quella degli anni Trenta era un’altra Germania…”Que diable au-je à faire dans cette galère?” “Che diavolo ci faccio su questa galera?”, si era chiesto verso la fine del viaggio con una battuta di Molière (da “Le furberie di Scapino”). Ma a stizzirlo era più che altro la prospettiva del ritorno ormai imminente e la massa dei passeggeri della nave che, dopo più di sei settimane di crociera, avevano già giocato tutte le proprie carte di presentazione in società, avevano esaurito gli argomenti e, in un teatro di futilità, tradito l’illusione che puntavano a creare dando in pubblico una certa immagine di sé. In quell’effimera messinscena, rispetto ai viaggiatori in vacanza, facevano “un’impressione di ben più robusta sostanza gli stewards che erano là per servirli, a riconferma del fatto che l’uomo è in generale più sopportabile quando lavora, come dimostra un qualsiasi pomeriggio domenicale a Berlino”.

Innegabile, Ernst Jünger era piuttosto di malumore tornando a casa in Germania, nel dicembre del 1936, dopo aver trascorso quasi due mesi in Brasile, come si evince dalle ultime pagine del suo “Viaggio Atlantico”: “Atlantische Fahrt”, il sorprendente taccuino uscito in sordina a Londra nel 1947 come suo primo titolo del secondo dopoguerra e appena riproposto da Klett-Cotta in una sontuosa edizione commentata, illustrata, ricca di foto inedite e di documenti originali.

Ma che diavolo ci faceva Ernst Jünger in Brasile?  Continua a leggere

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Cronache della rappresaglia

Schermata 2015-03-04 a 02.43.56– Jünger, vorrei pregarla di scrivere sin da adesso un rendiconto degli eventi, ora per ora. Che cosa succede, che cosa si dice. Non voglio un rapporto militare. Qualcosa di letterario invece.

– Qualcosa tipo il diario di Stendhal durante la campagna di Napoleone?

– Lo so che lei preferisce Hölderlin a Stendhal. Ma voglio appunto un testo del genere. Storiografico. E segreto. Nessuna copia.

E’ il generale Otto von Stülpnagel, comandante in capo delle truppe di occupazione tedesche stanziate a Parigi dal 1940, a rivolgersi con queste battute al capitano Ernst Jünger, a Parigi dall’aprile 1941 come comandante della seconda compagnia del reggimento 287. Lo aveva invitato a Palazzo Talleyrand per commissionargli la redazione di un “Denkschrift”, un memoriale dei fatti relativi alla spinosa “Geiselfrage”: la “questione degli ostaggi” francesi fucilati tra il 1941 e il ’42. Così almeno immagina che gli si rivolgesse il regista tedesco Volker Schlöndorff, che nel suo ultimo film, “Das Meer am Morgen” – realizzato per Arte e presentato in Germania il prossimo 24 di ottobre -, racconta “dal punto di vista tedesco” un dramma divenuto cruciale per la memoria storica europea e per la commemorazione ufficiale del passato francese.

Del testo “letterario”, “storiografico”, “segreto”, e fondamentale per ripercorrere i fatti accaduti – registrati, secondo istruzioni, nei dettagli: “ora per ora” – una copia si era però conservata. Per caso. O per la mano previdente e un po’ imprudente della signora Jünger, Frau Gretha. Che nella notte del 20 luglio 1944, nelle ore immediatamente successive al (fallito) attentato contro Hitler da parte degli ufficiali della Wehrmacht, bruciò le carte e le lettere del marito su raccomandazione di lui. Ma risparmiò la trascrizione – lasciata a casa da Jünger quando rientrò a Kirchhorst da Parigi per una licenza – dello scritto che rivelava tutti i particolari e le ambiguità, i presupposti e i risvolti “Della questione degli ostaggi” cui era intitolato. E che avrebbe scatenato accese polemiche, in forza semplicemente della “Descrizione dei casi e delle loro conseguenze” che, come annunciava il sottotitolo, conteneva.  Continua a leggere

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Uno Jünger STUPEFACENTE

Schermata 2014-04-14 a 14.32.25Fe-no-me-no-lo-gia. Volendo, è la parola chiave degli “Avvicinamenti” di Ernst Jünger. E, poiché “l’esistenza nel suo significato superiore, consiste in un avvicinamento continuamente ripetuto”, scrive, è la chiave di tutta la sua filosofia ed esistenza. È parola troppo astrattamente filosofica e astrusa, però, perché lo scrittore pensatore potesse servirsene. Sceglie invece di farla pronunciare, senza intenzioni teoretiche né comunicative, con la cautela guardinga di chi armeggi ad aprire uno scrigno dal contenuto prezioso e ignoto, a uno dei suoi personaggi. A uno dei personaggi incrociati sulla strada “che avvicina”, e descritti nel lunghissimo racconto – “Annährungen. Drogen und Rausch” – che solo “approssimativamente” si direbbe autobiografico.

Il personaggio si chiama Walter Petersen, un vecchio compagno di scuola come lui veterano sul fronte della Grande Guerra e suo vicino di letto nella camerata dell’ospedale di campo, ritrovato ad Hannover qualche anno dopo i combattimenti sulla Somme e la comune convalescenza alla guarnigione. Che dire all’amico con cui in tante circostanze si erano divise buona e mala sorte? “Fenomenologia”, disse Walter a Ernst: “articolando con estrema attenzione le sillabe, come se stesse disserrando una serratura con una chiave complicata. Non aveva l’aria di un soliloquio, né di una comunicazione”. Continua a leggere

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