A perdifiato dentro il castello di Kafka

Kafka fu entusiasta delle prime traduzioni dei suoi lavori: La condanna, Il fochista, i raccontini raccolti nel primo libro pubblicato, Meditazione. Fu l’amica, l’amata Milena Jesenská a eseguirne la versione in lingua ceca, e Kafka si disse commosso della cura con cui la traduttrice aveva soppesato ogni frasetta. Quando i due entrarono più in confidenza, aprendo nel lungo carteggio il proprio cuore l’uno all’altra e lei, celiando sulla firma di lui in calce alle lettere, Franz K. che, nella sua grafia, sembrava tutta una parola, lo chiamava Frank, Kafka ancora ebbe occasione di apprezzarne e approvarne la passione traduttoria e, a proposito della versione di L’infelicità dello scapolo, in cui pare che lei avesse attribuito tratti più marcatamente vivaci al protagonista, commentò: «Naturalmente approvo in tutto la tua traduzione. Solo che sta all’originale come Frank sta a Franz».

Frank Kafka con la sorella Ottla a Zürau (oggi Siřem)

Con il conforto di questa – divertita, sorridente – indulgenza dell’autore si è avviata la presente traduzione di Il castello: il ricordo dell’episodio dava coraggio, valeva a dissipare l’inevitabile, paralizzante soggezione che questo gigante della letteratura e il suo grande romanzo, l’imponente costruzione della sua prosa potevano incutere. Kafka era un gigante davvero, più alto di tutta la testa di coetanei e contemporanei, lungo lungo com’era però, attesta chiunque lo avesse incontrato, si muoveva soave, leggero come un angelo: l’autore di La metamorfosi era un uomo-libellula. E così la sua scrittura: la grafia delicata, a caratteri piccoli, in cui spiccava – tratto deciso, impronta di personalità energica – la linea verticale delle consonanti; e la prosa nitida, schietta, minuziosa, cristallina, atta a penetrare, con incedere sicuro e quell’amore contagioso per «i dettagli miti» di cui parlava il suo maestro di ebraico Friedrich Thieberger, per i particolari tangibilmente concreti, la complessa architettura del mistero. 

Si doveva solo seguire e tenere il suo passo, lasciarsi portare e sorprendere, affidarsi al ritmo seducente della narrazione tenendo la vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho, letta con occhi innamorati e piglio un po’ troppo filosofico trent’anni fa, ben chiusa dentro a un baule in cantina. 

Due sono gli aspetti che il confronto corpo a corpo, vis-à-vis con il testo di Kafka lascia costantemente percepire: l’umorismo guizzante, radioso, irresistibile, ai limiti dell’esilarante comicità, e la musicalità che trascina suadente, sospinta da un possente respiro, l’intera partitura del testo. I due elementi sono reciprocamente legati, se è vero che l’effetto umoristico di una battuta o di un gesto – si veda K. al cospetto di Bürgel in quel capolavoro che è il capitolo XXIII o la burlesca, buffonesca, burattinesca gestualità degli aiutanti dalla loro comparsa sulla scena – è assicurato dal ritmo azzeccato, indovinato o calcolato in cui sono descritti e che la musica grandiosa, prodigiosa del testo, anche quando larga e grave, corrobora, dà forza e dà gioia. 

L’edificio che dominava Zürau-Siřem e che suscitò in Kafka l’immagine del castello

Leggendo – o, un po’ più lentamente, traducendo – non si resta mai senza fiato. Nemmeno quando il fraseggio è amplissimo, nemmeno quando il periodare è lunghissimo, quando la scrittura – annotata di notte, lo sappiamo, dall’autore in preda a una fervida ispirazione – si riversa sulla pagina con l’impeto di una piena e prosegue inarrestabile, spezzata ma non arrestata dai numerosi incisi, fino al lontano punto fermo. Questo è Kafka: i labirintici percorsi mentali, sì, gli ingarbugliati, inestricabili ingranaggi dell’esistenza, certo, ma anche la gioiosità, l’entusiasmo, la Begeisterung, ovvero presenza di spirito e sovrana ironia che gli diedero l’ardire di percorrerli per farne sfavillare l’enigma; che gli fecero sognare – raccontava l’impareggiabile Pietro Citati – di leggere da cima a fondo ad alta voce tutto d’un fiato l’Éducation sentimentale di Flaubert e magari di scrivere tutto d’un fiato, senza smettere né interrompersi, Il disperso o Il castello. La funzione fatica, per dirla alla Jakobson, «io ti dico che…», è talmente forte, il fascino della scrittura talmente potente, lo charme dell’autore talmente intrigante che non si può fare a meno di pendere dalle sue labbra fino alla fine. 

Inevitabile cercare di immaginarsi la sua voce. Stando a quanto ne dissero gli amici di gioventù ricordando colui che fece in tempo solo ad essere giovane – per esempio, per citare solo le testimonianze più toccanti, Urzidil in Di qui passa Kafka, Koch in Quando Kafka mi venne incontro… o più di recente Stach in Questo è Kafka? – la sua parlata era perfettamente coerente con la fisionomia della sua persona e della sua opera. Parlava piano, con voce calda e dolce, alta nel timbro, un’ironia lieve accompagnava sempre le sue parole. Il suo tedesco elegante, lindo, aveva «forse un leggero accento ma era privo di tracce dialettali», così Urzidil che, concittadino di Kafka, parlava lo stesso tedesco-praghese, conservato intatto in quell’isola linguistica fin dal medioevo. Era un tedesco privo di fratture tra lingua quotidiana e lingua letteraria, laddove la prima aveva l’altezza della seconda e la seconda la semplicità della prima, permeato da «l’immensa musicalità naturale» delle melodie popolari boeme. Quella musica dovette improntare le costruzioni sintattiche di Kafka che occasionalmente, ma solo in casa, canticchiava da tenore: schivo com’era, mai più si sarebbe esibito in concerto, anche se per un periodo suonò il secondo violino in un quartetto d’archi. Leggere in pubblico però gli piaceva, leggeva con perfetta chiarezza a velocità vertiginosa, con i crescendo dinamici che ritornano sulla sua pagina. In traduzione quelle sonorità, quel respiro lunghissimo dovevano essere rispettati, conservati, quantomeno evocati. Certo la lingua è un’altra, con possibilità lessicali e sintattiche diverse, e la voce che ripete le parole di Kafka è femminile, proprio come quella di Anita e di Milena, tutte quante devotamente intente a restituire un’eco del dettato di Franz K.

Lucca, marzo 2023

Alessandra Iadicicco

(nota alla nuova traduzione di Das Schloß pubblicata da Il Saggiatore nell’aprile del 2023)

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