Peter Handke e il rossetto sulla pietra

«Anzitutto c’era, credo, la parola. Die Dauer, “la durata”, è una bella parola: comincia con un suono morbido, la d, e poi viene una a, e ancora una vocale, e poi… È quasi come se tutta la parola fosse composta da vocali».

Peter Handke aveva incominciato così, con una suggestione musicale, con il ricordo della melodia verbale che gli era risuonata nella mente oltre trent’anni prima, a raccontarci del giorno in cui gli era «arrivata in volo» quella poesia: Gedicht an die Dauer, che nella traduzione italiana – la bellissima versione di Hans Kitzmüller pubblicata da Einaudi – diventa, con perfetta sintonia a quella sonora ispirazione, un «Canto». Eravamo in sei ad ascoltare il racconto di Handke, in casa sua, in teso, emozionato silenzio, perfettamente muti affinché i microfoni registrassero la sua voce tenue, un po’ roca, il suo eloquio tranquillo, lento e sicuro, nitida espressione di pensosità, di concentrazione, di genuina sincerità, e anche perché agli apparecchi non sfuggisse, accompagnamento perfetto della voce del poeta, il frusciare del vento, il mormorio degli alberi nel giardino, il coro dei passeri e dei merli che arrivavano zampettando a sbirciare fin sul davanzale della finestra. Era proprio l’inizio della primavera, il 20 marzo. La grande foresta di Meudon, fuori Parigi, era ancora assopita, gli alberi ancora spogli, ma i rami nel giardino di Handke, che ai piedi dell’altipiano, nelle vicinanze di quei boschi, vive da 27 anni, erano pieni di gemme, e il melo buttava già i suoi primi fiori. Una settimana saremo rimasti con lui. Incuriosito, attratto dall’idea di girare un film documentario sul Canto alla durata, il poeta ci aveva aperto la sua casa. E noi vi avevamo fatto irruzione con tutto lo strumentario del caso: cineprese, cavalletti, luci, microfoni… «Alessandra, che cosa intendi dire quando parli di troupe?”», mi aveva chiesto spaventato il giorno prima, quando l’avevo chiamato al telefono per fissare l’appuntamento del primo incontro. Eravamo d’accordo che sarebbe stata un’intervista e che sarebbe stata filmata. Io stessa, del tutto digiuna di esperienze con il video, non avevo saputo precisargli come si sarebbe svolta la cosa. Handke invece, che di cinema ha una sapienza maturata attraverso molti decenni, non solo come autore e sceneggiatore, ma anche come regista, prevedeva che, per un documentario del genere, sarebbero bastate una, due persone al massimo, oltre all’intervistato e all’intervistatrice.

Didi Gnocchi invece, produttrice e ideatrice dell’intero progetto, aveva voluto fare le cose in grande. Così, oltre ad arrivare eccezionalmente sul posto di persona, almeno per l’inizio delle riprese, abbandonando per ben una giornata al suo destino la sua casa di produzione, aveva mobilitato Michele, Michele Mally, art director e regista di delicata sensibilità, attivo per molti anni al fianco di Gad Lerner, due giovani cameramen, Davide Borroni e Mateusz Stolecki, e una redattrice, Arianna Marelli, fresca di dottorato alla Scuola Normale di Pisa e coraggiosamente avviata all’apprendistato televisivo. Questa la compagnia che, sulle prime, seppe atterrire il poeta.

Non sarebbe stato Peter Handke se non avesse manifestato la sua proverbiale riluttanza e ritrosia. Dov’è il progetto? Dov’è la scaletta? Avete studiato le mappe dei luoghi intorno a Parigi (i luoghi citati nel poema, la Porte D’Auteuil, la Fontaine Sainte Marie). Perché nessuno mi ha detto che le domande dovranno scomparire dal film finale? Le sue obiezioni erano fondate, e noi incassavamo remissivi, come scolaretti colti senza i compiti. La traccia delle domande – «fagliene tante, preparane tantissime, fallo parlare a tutto campo», mi avevano raccomandato Didi e Michele – volutamente non gli era stata inviata in anteprima, proprio perché il suo discorso non risultasse studiato, per lasciare un buon margine alla creativa improvvisazione. «Vi concedo due mezze giornate», aveva stabilito minaccioso, scombinando totalmente i piani di noi che ci saremmo trattenuti a Chaville ben più a lungo. D’accordo… incominciamo. E invece poi.

Poi, rotto il ghiaccio con lo schiocco beneaugurante del tradizionale «Ciack, si gira!», il racconto del poeta ha preso avvio. Generoso, epico, sontuoso. Vibrante di intimità, semplice e nudo come la più spassionata delle confessioni, ritmato, vivace e cristallino come la più toccante delle melodie. L’eco più autentica di quel Canto.

Stuzzicato sui temi chiave, sui temi cari a lui e al suo lettore, Handke diceva quello che gli veniva in mente. Dell’amicizia e dell’amore. Della preghiera e del divino. Della sua infanzia e della sua famiglia. Del giorno straziante in cui, nel silenzio delle prime luci dell’alba, era morta la sua nonna, e lui, bambino, ancora rannicchiato sotto le lenzuola, aveva udito l’urlo lacerato di sua madre. Dello strappo – che lo avrebbe segnato per tutta la vita, e avrebbe deciso il suo destino di esule, sradicato, poeta dei luoghi – aperto quando fu tolto alla famiglia e mandato a studiare in collegio. E poi della magia degli oggetti di cui si circonda, del riverbero sublime della luce sulle cose, del cinema naturale allestito per lui en plain air dalla natura, dell’incantesimo della fotografia…

Handke, che non ama gli si facciano domande, che nei suoi diari si augura che qualcuno impari l’arte del non chiedere, del non interrogare, in quell’occasione ha rispettato uno dei suoi numerosi «undicesimi comandamenti» (il suo Journal dell’ultimo decennio ne è disseminato): «Sii buono ancora una volta, stai al gioco!». È stato al gioco e ci piace credere che si sia anche divertito.

Sul sospetto, l’esigenza di rispetto della sua solitudine, hanno avuto la meglio la benevolenza, l’indulgenza, l’ospitalità, l’attrazione umana per le persone in fondo arrivate lì da lui per rendergli omaggio. Con Michele, che è ceco di origine e dotato della padronanza di un elegantissimo francese – due dettagli che hanno molto colpito l’immaginazione di Handke – si è stabilito sin da subito un feeling straordinario. Con lui, peraltro, Handke poteva parlare di calcio, della sua squadra del cuore, il Paris Saint Germain, e del suo idolo, il fantasista Javier Pastore! Dopo le prudenti raccomandazioni iniziali, «fate attenzione vi prego, non toccate niente!», a difesa dei fragili tesori che riempiono fino a gremirla la sua casa – libri, selci, matite, fotografie, piume di uccello, nocciole, conchiglie fossili, rocchetti di filo, foglie essiccate, ciuffi di calzascarpe, ai piedi della scala d’ingresso il piccolo popolo dei Playmobil… – gli ha dato il permesso di girare a lungo nella casa e nel giardino perfino in sua assenza. E a lungo Michele si è trattenuto a filmare ogni dettaglio, affinché il bottino di immagini per il film fosse il più ricco possibile. Discreti poi, agili come gatti, lo seguivano passo passo i due cameramen, due personaggi, anche loro, che hanno presto conquistato la simpatia dello scrittore. Davide, un corpo atletico, il volto di un apache, i capelli lunghissimi bruno lucenti e una fila di scintillanti orecchini d’oro. Handke lo osservava attento mentre accendeva la sua sigaretta elettrica come un calumet e intanto commentava: «È pazzo, su di lui dovreste fare un film!” E Mateusz, il polacco, giovanissimo, sempre sorridente con la squisita dolcezza dell’Est, tanto timido e riservato nel suo contegno quanto abile nelle manovre infallibili alla cinepresa. Handke ne era incantato, lo ha lasciato a fare, si fidava. Alla fine alla prima mezza giornata di riprese, giù in soggiorno, al suo tavolo di lavoro, era seguita la seconda, nello studio su di sopra, e poi la terza, nel giardino, e poi la quarta, sulle rive del laghetto ai margini del bosco, e poi nel bosco e ancora… Handke non riusciva a prendere congedo dalla troupe con la quale aveva vissuto, tra una mezza giornata di lavoro e l’altra, tanti momenti di convivialità. A tavola, alla brasserie di Versailles, nei due ristorantini di Chaville, all’osteria vicino alla stazione gestita da quel suo amico iracheno tifoso di calcio come lui, Handke mangiava pochissimo, ma si è sempre premurato che tutti quanti fossimo sazi. A un bicchiere di vino, però, non ha mai rinunciato, e predilige il bianco, che lo rende loquace e spiritoso. L’ultimo giorno, quando, forniteci le mappe che avremmo dovuto procurarci da soli, saremmo dovuti andare in cerca della Fontane Sainte Marie, la piccola sorgente naturale nascosta nel bosco tra Clamart e Meudon che per lui, scrive nel Canto, è il centro del mondo, a sorpresa ci disse: «Non riuscirete mai a trovarla da soli!» e a seguire concluse: «Vengo con voi».

Quel pomeriggio ci aveva raggiunti anche Sophie, Sophie Semin, la moglie di Handke, la compagna perfetta per stare al suo fianco, una donna tenera e fortissima, dotata di una soave fascinosità e di carattere, disposta ad abitare da sola a Parigi concedendo il suo spazio al poeta solitario, ma presente, vicina, pronta ad esserci. Sophie era più meravigliata di noi quando, camminando spedito sui sentieri del bosco dove non si inoltra mai in compagnia di altri, suo marito non solo ci aveva condotti al cospetto di quella minuscola sorgente di acqua purissima ma, aiutandosi con una stecca di rossetto, il rouge des lèvres della stessa Sophie, ne aveva fatto resuscitare il nome, ripassando l’incisione quasi cancellata sulla pietra della fonte. Quell’attimo, nel cuore del bosco, al centro della radura che accoglie la sorgente perenne, è stato un miracolo. Reso più intenso del canto lieve dell’acqua, intonato per la durata…

Non c’è un solo fotogramma del film, che finalmente sarà presentato al pubblico (proiettato al cinema Anteo di Milano la sera di mercoledì 27 settembre e in replica nella stessa sala fino all’inizio di ottobre, su Sky Arte il 28 settembre) che non sappia restituire quella vibrazione miracolosa, quella felice coincidenza di circostanze, quella poesia. Le musiche originali composte da Remo Anzovino, la voce e la faccia fantastica di Bruno Ganz che legge passi dal poema al Cabaret Voltaire di Zurigo, il controcanto dei due doppiatori d’eccezione, Michele Placido e Alarico Salaroli, ogni angolo, spiato a beneficio dello spettatore, della casa, del giardino e dei boschi di Chaville più, naturalmente, ogni battuta, gesto, sguardo, sorriso, sospiro del poeta, che sa essere grandemente naturale, autentico, vero davanti alla pagina come davanti all’obiettivo di una cinepresa suscitano in chiunque ne prenda visione un’emozione fortissima. È raro riuscire a rendere onore in modo così potente alla poesia.

Concepito per un bisogno assolutamente personale della sua ideatrice la quale, come ha raccontato ad Handke stesso, in varie stagioni della sua vita ha trovato nel poema e nel motivo della «durata», un punto di riferimento, un soccorso, un sostegno, questo piccolo capolavoro si offre ora agli spettatori non solo come un prezioso omaggio a un poeta gigantesco, ma come la celebrazione più delicata di un valore universale – la “durata”, appunto, il tempo che è nel tempo e oltre il tempo -che oggi così difficilmente si riesce a capire, a sentire e ad apprezzare. Il dispendio di forze – e di denari – necessari alla realizzazione del film sono stati proporzionali alla sua straordinaria riuscita, ed è doveroso ricordare che il progetto del documentario è stato in parte finanziato dall’azienda di design B&B Italia.

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